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Beautiful Boy, epopea di una famiglia borghese nella lotta alla droga

Beautiful Boy, epopea di una famiglia borghese nella lotta alla droga

31 Ottobre 2018 0 Di Francesca Pierpaoli

Si potrebbe pensare che Beautiful Boy, l’ultimo lavoro di Felix Van Groeningen regista di Alabama Monroe presentato al London Film Festival e alla Festa del Cinema di Roma 2018, sia l’ennesima storia di droga e degrado. Invece è, prima di tutto, la storia di un rapporto padre-figlio devastato dalla comparsa della droga.

Una storia vera, tra l’altro, basata su ben due libri – Beautiful Boy: A Father’s Journey Through His Son’s Addiction di David Sheff e Tweak: Growing Up on Methamphetamine di suo figlio Nic Sheff. L’ambientazione è borghese, tra San Francisco e Los Angeles, quindi non vi sono la disperazione, l’emarginazione o la povertà che spesso accompagnano le tematche legate alla droga. David, interpretato da un ottimo Steve Carell, è un giornalista freelance che cerca di aiutare il figlio diciottenne Nic, cui dà il volto la star emergente Timothée Chalamet, a uscire dal tunnel della droga. Lo fa in ogni modo, finendo anche per provare la droga per testarne gli effetti.

Il rapporto padre-figlio viene indagato ricorrendo a numerosi flashback che si innestano sulla narrazione, e da cui emergono una figura paterna ed una famiglia presenti ed affettuosi. Nic ha un padre, una madre e una matrigna che lo amano molto, e due fratellastri più piccoli che lo idolatrano, tuttavia qualcosa lo sta distruggendo. Nulla, dunque, lascia presagire il baratro in cui precipita Nic: prima uno spinello, poi LSD, la metanfetamina e infine la temibile eroina. La pellicola non indaga le motivazioni di questa spinta all’autodistruzione, ma si concentra sul percorso di recupero, sulle numerose ricadute del ragazzo e sulla crescente disperazione della famiglia.

Un dramma famigliare

La sceneggiatura di Luke Davies, già autore del sopravvalutato Lion – La strada verso casa, presenta un approccio invasivo, altamente drammatico, sostenuto da musiche strazianti con l’obiettivo chiaro di commuovere, di colpire lo spettatore. Il ritmo, tuttavia, risulta spesso lento e non mancano scene scontate come le prediche dei vari rehab center, o i dettagli sull’iniettarsi l’eroina.

La relazione padre/primogenito tra Timothée e Steve, costruita su forti abbracci e sguardi colmi d’affetto, sostiene un’opera forse eccessiva, che non conosce mezze misure, esplicitando sentimenti, problemi, dissidi. Al fianco dei due protagonisti si trova una bravissima Maura Tierney, Golden Globe per The Affair, nel ruolo di una matrigna che sceglie di gestire in silenzio, con discrezione, il complesso rapporto tra l’adorato marito, i figli e l’amato figlioccio. Non si intromette, non giudica, si limta a osservare e offrire sostegno.

Un monito contro la dipendenza

La tesi del regista è che la dipendenza può colpire chiunque: non ci sono discriminazione di sesso, estrazione sociale, o cultura. Nic, come dicevamo, non ha subito violenze, proviene da una famiglia agiata: dunque non ci sono cause scatenanti per la sua dipendenza. Così come è abbastanza chiaro che la comunità di recupero non è la panacea: le continue cadute e ricadute di Nic fanno sì che non ci sia evoluzione, e così deve essere, perché la dipendenza è una tragedia senza uscita, che si ripete senza fine.

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