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L’altro Quebec a Milano: alla Statale la mostra sul Kebek di Robert Lepage

L’altro Quebec a Milano: alla Statale la mostra sul Kebek di Robert Lepage

13 Novembre 2019 0 Di Laura Sestini

Intervista a Anna Maria Monteverdi, curatrice della mostra Kebek – Lepage, ritratti ambient, dedicata al regista Robert Lepage.

Nella sede centrale dell’Università Statale di Milano in via Festa del Perdono  all’interno della manifestazione Book City 2019, si inaugura giovedì 14 novembre e prosegue fino a domenica 17 Kebek – Lepage, ritratti ambienti, la mostra dedicata al regista e interprete franco canadese Robert Lepage.

Anna Maria Monteverdi racconta il Kebek di Robert Lepage

La sua ricerca su Robert Lepage la impegna da oltre 20 anni con il risultato di due pubblicazioni monografiche dedicate al regista canadese: quando e perché è scattata la scintilla d’amore per la poetica di questo autore?

«Nel 2000 andai a vedere un suo spettacolo in Svizzera, capii subito che il suo lavoro sarebbe stato l’oggetto principale della mia ricerca di dottorato che si focalizzava sul rapporto tra teatro e tecnologia. E così fu. Andai in Québec a seguire le fasi di produzioni di uno spettacolo molto bello e che vinse moltissimi premi, La face cachée de la lune, dove Lepage era l’unico attore. La scrittura scenica, l’interpretazione e la tecnologia video nel suo teatro erano una cosa sola e la chiave di lettura del racconto passava da momenti di realismo a voli di assoluta surrealtà. Il legame tra le molte vicende narrate, tra la storia del personaggio e le immagini video, era costruito momento dopo momento dallo spettatore. E tutto era molto naturale, in una forma che oltrepassava il teatro e superava il cinema ed era entrambe le cose. Continuo a vedere i suoi spettacoli con lo stesso occhio incantato ed emozionato di vent’anni fa».

Nonostante la lunga carriera e i numerosi premi ricevuti, Lepage non è molto noto in Italia: può esprimere le sue impressioni al riguardo?

«Non direi che è poco noto. È presenza quasi fissa al Napoli Teatro Festival, è arrivato a RomaEuropa e al Piccolo Teatro di Milano in più di un’occasione, nonché alla Scala per una regia lirica. Certamente l’area francofona ha una vera adorazione per lui. Per le sue produzioni, però, ha ragione: non girano moltissimo in Italia perché sono macchine complesse – tranne rari casi – e sono pochi i teatri in grado di sostenere lo sforzo economico; aggiungiamo, poi, la cronica refrattarietà dell’Italia a produrre e distribuire opere che contengono tecnologie multimediali a causa di una evidente ignoranza culturale. Lepage non propone un “teatro” difficile o per gli addetti ai lavori, non c’è nulla di complesso sul piano drammaturgico e tanto meno sul piano tecnologico, per cui non c’è alcun rischio a programmarlo, anzi! Al Barbican, a Londra, è andato in scena un mese di seguito e il teatro ha registrato un clamoroso sold out».

Lepage, un occhio di riguardo per le criticità etniche del Canada

Lepage ha un occhio di riguardo verso le criticità etniche del suo Paese. Sebbene il Canada risulti più sensibile di molti altri Stati, anche europei, a questa tematica, varie etnie non sembrano abbastanza tutelate come verrebbe da pensare. Come può aiutare l’arte drammaturgica in questa annosa questione, non solo canadese, divenuta, strada facendo, solo uno scontro politico tra opposte linee di pensiero un po’ ovunque nel mondo?

«Le vicende che ruotano intorno a Kanata, il suo recente spettacolo sulle minoranze indiane o Prime Nazioni, sono complicate: Robert voleva offrire uno spaccato della società multiculturale del Canada attraverso la lente di una comunità che è ancora, ieri come oggi, ai margini della società, con storie molto drammatiche. Parlarne a teatro significa mostrare una problematica sociale e identitaria di cui sicuramente molti (tra noi europei) non sono a conoscenza e, da questo punto di vista, il lavoro ha funzionato. Il teatro ha fatto da cassa di risonanza, è diventata una lente di ingrandimento. Il risvolto negativo è stato che i rappresentanti delle Prime Nazioni si sono sentiti offesi di non essere stati chiamati in qualità di “attori” in una storia che li riguardava. I giornali parlarono di “appropriazione culturale” e, questo, ha causato una lettura distorta delle genuine intenzioni di Lepage e di Ariane Mnouchkine (la Compagnia era quella del Theatre du Soleil). Molti finanziatori pubblici si sono tirati indietro, anche se poi lo spettacolo è proseguito lo stesso con ampio consenso di critica e di pubblico sia a Parigi che a Napoli. Certamente vale la pena utilizzare questo evento come occasione di riflessione sul ruolo e sulla funzione del teatro, sul tema della rappresentatività sociale. Apre scenari che vanno a toccare nervi scoperti della società. In questi casi il teatro riscopre la sua vocazione comunitaria, la sua necessità».

Come raccontava, Lepage è stato politicamente criticato e censurato per almeno due dei suoi spettacoli (oltre a Kanata, Slav) perché, nonostante le tematiche riportassero la condizione di alcune minoranze etniche, non ha lasciato interpretare direttamente a performer provenienti da quelle stesse minoranze una parte auto-rappresentativa. Lui si è difeso sostenendo che il teatro è immedesimarsi in altro. E questo è sacrosanto. Ma non crede che dare visibilità pubblica, in scena, agli Inuit o First Nations (o anche ai neri) avrebbe avuto una valenza diversa, progressista e rivoluzionaria, per loro causa?

«Per ben due volte di seguito, a distanza di pochi mesi, Lepage ha dovuto affrontare delle controversie che fuoriuscivano dalla creazione teatrale vera e propria e di cui si sono alimentati abbondantemente i giornali. Per Kanata le popolazioni indigene, “invisibili” nella società canadese, chiedevano di partecipare più attivamente al lavoro teatrale, ma dietro questa richiesta c’era l’ambiguità di considerarsi gli unici, veri “depositari della Storia”. Di fatto però, il teatro vive e si alimenta della finzione. In teatro gli attori interpretano l’altro da sé tramite una maschera, un travestimento, l’impersonificazione, l’immedesimazione; stanno, comunque, sempre al posto di qualcun altro; per quanto possano essere dentro la dimensione emotiva del personaggio, talvolta si sentono addirittura dilaniati dalla storia che parla attraverso la loro bocca. Ma anche nel caso del più crudo teatro documentario siamo di fronte a una finzione. Non credo davvero che la presenza di “veri” indiani sarebbe stata garanzia di verità e non credo che questa “rivendicazione dell’esistenza” avrebbe portato a un riscatto culturale nella società di questa minoranza. La questione è mal posta ed è stata strumentalizzata politicamente; ma la pratica teatrale, per fortuna, ha vinto su tutto, e alla prima di Parigi i critici sono rimasti letteralmente folgorati dal modo poetico, delicato, con cui la vicenda è stata raccontata: il marchio di Lepage era ben leggibile nei momenti di visionarietà evocativa che hanno lasciato il pubblico a bocca aperta. Tutto il pubblico». 

Kebek, nel teatro un intreccio di tecnologie digitali e linguaggi multimediali

Le opere di Lepage sono un intreccio di linguaggi multimediali, molto attuali, poliedriche e affascinanti. Le tecnologie potrebbero essere un ottimo propellente per avvicinare le nuove generazioni al teatro o un deterrente? Lei, come docente, dovrebbe percepirne le preferenze e gli andamenti.

«In effetti non ho mai capito se le tecnologie siano un “deterrente” o un valore aggiunto allo spettacolo. Il caso di Lepage è abbastanza atipico, come per certi aspetti il teatro di Kentridge: la scrittura drammaturgica tiene già conto della tecnologia e tutto l’insieme fa parte di un processo attivo, dove si improvvisa, si toglie, si modifica ma non c’è un medium che prevalga sull’altro. La tecnologia non è certo l’oggetto di pregio aggiunto all’ultimo per riempire un vuoto di idee. Non basta usare l’ultima tecnologia sul mercato per avere appeal sul pubblico e questo Lepage lo sa bene: potrebbe essere molto rischioso, al contrario, se non sei in grado di fare un’operazione equilibrata e se tutta la tua creatività si poggia solo sulle tecnologie che usi. A Linz sono andata a vedere uno spettacolo, dove bisognava indossare occhiali 3D per un’ora e mezzo; in questo modo la scena si animava di elementi visivi tridimensionali non presenti realmente sul palco: niente di trascendentale ma il lavoro di pre-production era piuttosto complesso. L’efficacia computazionale è, però, altra cosa dall’effetto sul pubblico e, dopo cinque minuti, quando avevi capito il giochino, ti levavi gli occhiali e tornavi a cercare l’attore in scena. Il contenuto, quello che hai da dire, deve venire prima della tecnica. Ultimamente ho visto in Italia cose interessanti. A Digital Live di Roma Europa c’erano moltissimi giovani e questo fa ben sperare: le proposte si intrecciavano con arte visiva, installazioni di luci con musica, interattività e danza. Un panorama molto remixato è anche quello di altre programmazioni fortunate, come quella che ho potuto vedere a Reggio Emilia al Festival Aperto. Il concerto-spettacolo di danza interattiva con video live dal curioso titolo Utera, del musicista Gabriele Marangoni, prodotto da Tempo Reale, è una delle sperimentazioni più ardite ma anche più piacevoli e riuscite che abbia visto negli ultimi anni». 

Nella mostra Kebek, va in scena il “teatro invisibile”

Quali sono i suoi obiettivi per il progetto KEBEK-Lepage, Ritratti Ambienti in Italia?

«Il tema che abbiamo provato a sviluppare è “il teatro invisibile”: non c’è l’immagine di un teatro, di un palcoscenico o degli attori, ci sono volti fissati con una maestrìa e una sensibilità quasi commuovente da Marzio Emilio Villa, colti in strada, nel metro di Montréal e nel quartiere cinese. È come se fossero i personaggi di uno spettacolo di Lepage, come La trilogia dei dragoni o, appunto, Kanata. Marzio ha fissato in queste bellissime istantanee la geografia e l’umanità delle storie di Lepage, storie che sono tutte ambientate o hanno a che fare con il Québec. Anzi, Kebek, per dirla con la parola usata dalle comunità che per prime hanno abitato la Regione, designando il luogo dove “il fiume si restringe”. E proprio a Québec City, davanti al fiume San Lorenzo, si affaccia il quartier generale di Lepage, la sede Ex machina. Grazie alla Delegazione del Québec in Italia e grazie alla società Natural Code abbiamo potuto realizzare il progetto».

Come ha scelto il fotografo al quale affidare il delicato compito degli scatti. Scelta ricaduta poi su Marzio Emilio Villa?

«Marzio studiava Fotografia all’Accademia di Brera, Scuola di Nuove tecnologie. Ci siamo conosciuti lì quando insegnavo Digital Video. Poi Marzio si è trasferito a Parigi per fare della fotografia la sua professione e abbiamo continuato a frequentarci. Ho seguito i suoi notevoli progressi non solo sul piano tecnico, e ho notato che aveva raggiunto una sua cifra stilistica molto personale e importante. Poi, lo spettacolo Kanata di Lepage, lo scorso dicembre a Parigi, ha fatto scattare la scintilla di un progetto comune che fosse qualcosa di più di un reportage classico e andasse a parlare di teatro, ma diversamente. L’idea di Marzio era quella dell’indagine sociale delle diverse comunità inserite nel loro contesto: il volto di Virginie Bujold-Paré – di Montréal ma di origini autoctone – che abbiamo scelto per la locandina è, per me, un’immagine davvero iconica. Devo dire che è una grande soddisfazione portare questa mostra alla Statale di Milano, grazie al Rettore, il professor Franzini, e al Direttore del Dipartimento di Beni culturali, il professor Bentoglio, che hanno aderito entusiasticamente al progetto. Oltre che a Book City, che l’ha inserita in programma». 

Marzio Emilio Villa: Fotografare Kebek, una grande opportunità per un fotografo delle minoranze

Prima del progetto che ha portato alla realizzazione della mostra KEBEK/Lepage, Ritratti Ambienti aveva già avuto contatti soprattutto con le minoranze etniche canadesi? Qual è stata la sua chiave di contatto con popoli culturalmente così diversi da noi?

«Purtroppo, o per fortuna, in Italia faccio parte di una minoranza etnica. Di conseguenza questi temi mi toccano personalmente e hanno una parte predominante nel mio lavoro. Mi muovo principalmente tra Italia e Francia, dove sono presenti molte minoranze che ho fotografato in altri lavori. Il punto cardine per conoscere tali problematiche e riuscire a parlarne senza essere offensivi è stata la mia compagna. La sua famiglia ha origini native canadesi e realizzare queste fotografie per KEBEK/Lepage è stata una grande opportunità per parlare di temi che mi toccano ma, soprattutto, che paiono ormai dimenticati dall’Europa nonostante le implicazioni storiche».

Le immagini, seppur d’impatto, hanno una composizione semplice: è il suo stile personale o ha scelto detto taglio per questo specifico lavoro?

«‟Più le linee e le forme sono semplici, più c’è bellezza nella forma. Ogni qualvolta la si divide, la si indebolisce”. Una frase, questa, tratta da Note e pensieri di Jean-Auguste-Dominique Ingres. Alcune frasi di questo libro, che un mio professore al liceo ci consigliò, rimangono la base fondamentale nella mia concezione fotografica».

Cosa ha apportato nella sua vita personale, umanamente intesa, questo progetto?

«Conoscere e parlare di culture diverse e di problematiche riguardanti le minoranze etniche è sempre complicato e a volte frustrante. È difficile far capire alla maggioranza cose che succedono, spesso, dall’altra parte del mondo. Sembra sempre di remare controcorrente: sarebbe molto più facile se, con un po’ di empatia, si aiutasse l’intera specie umana. Sicuramente mi ha portato molta più consapevolezza».

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