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Lo smart working e il mito della Fata Morgana

Lo smart working e il mito della Fata Morgana

18 Febbraio 2020 0 Di Vittorio Zenardi

Avete presente il mito della Fata Morgana, quello da cui prende nome il fenomeno fisico visibile da Reggio Calabria? Si tratta di una specie di miraggio, che ingrandisce Messina e la proietta talmente vicina alla Calabria da illudere i calabresi di poterla toccare, allungando una mano. Si chiama “effetto Fata Morgana” perché la leggenda vuole che la sorellastra di re Artù, Morgana, arrivata insieme a lui in Sicilia su una barca che aveva il simbolo celtico della triscele, andò a vivere in un castello sott’acqua al centro dello stretto di Messina per proteggere il fratello rimasto sull’isola. In un leggendario mese d’agosto, un re barbaro arrivò a Reggio per conquistare la Sicilia. Morgana, per proteggere il fratello, fece apparire la Sicilia talmente vicina alla Calabria che il re si illuse di poterla raggiungere a nuoto. Mentre nuotava, però, l’incantesimo si interruppe e il re barbaro morì affogato.

Vi starete chiedendo se avete sbagliato articolo, perché vi parli di miti e leggende e cosa c’entri lo smart working con la Fata Morgana. Mi verrebbe da rispondere che la triscele è sì un simbolo celtico, ma è anche il simbolo della Regione Siciliana, probabilmente ha origini orientali e rappresenta il moto del sole rotante attraverso un essere con tre gambe che si inseguono, ma effettivamente porterei i lettori fuori tema. Il paragone, comunque, è quanto mai pertinente: la Fata Morgana è la protettrice del sistema melmoso che governa la pubblica amministrazione. Per vedere l’effetto Fata Morgana, non c’è bisogno di un particolare indice di rifrazione della luce del sole nei diversi strati d’aria, come nel caso del fenomeno fisico, basta pronunciare la parola smart working e miracolosamente appare il miraggio di una società moderna, che rispetta il lavoro e i lavoratori, che risparmia le risorse, che non inquina, che restituisce agli individui la cosa più preziosa che un essere umano possa avere, il tempo, e che restituisce anche il piacere di lavorare con gli altri e di incontrarsi quando serve, evitando di convivere come polli in piccole stanze e sedi sempre più costose e inutili. È grazie alla Fata Morgana se il miraggio appare, sparisce e i lavoratori affogano illusi e disillusi. Ma chi è la Fata Morgana, nella Pubblica Amministrazione? La Fata Morgana è una commistione tra dirigenza e sindacati, tra spartizione dei poteri e conservazione dei privilegi, tra finte prove di forza e meschine dimostrazioni di debolezza, è una palude melmosa fatta di burocrazia, di accordi siglati sottobanco, di riunioni massoniche, di graduatorie poco trasparenti e di regole impopolari che creano disuguaglianze, malcontenti e mettono i lavoratori l’uno contro l’altro. La Fata Morgana è la menzogna che illude i lavoratori, li demotiva, li svuota da ogni entusiasmo, li fa scappare all’estero, li porta a odiare il lavoro, i colleghi, le dinamiche lavorative e causa ansia, depressione e sfiducia. La Fata Morgana è una narrazione del lavoro che confonde i diritti con i privilegi, il potere con il dovere, che divide i lavoratori e crea obiettivi miserabili, premi ridicoli e guerre tra poveri disastrose. La Fata Morgana riesce a tirare fuori il peggio dai lavoratori, li abitua al brutto affinché la promessa di qualcosa non dico di bello ma di meno brutto venga vista come un traguardo. La Fata Morgana è il sistema di un Paese vecchio e stanco in cui la Pubblica Amministrazione resta sempre 20 anni indietro perché è vittima di sé stessa. La Fata Morgana non muore mai, perché è un personaggio reale che nasce dal mito e continuerà a illudere coi suoi miraggi i cittadini e i lavoratori onesti, continuerà a spegnere gli entusiasmi e a far fuggire i propri figli in Paesi in cui i miraggi non esistono. Chiarito questo aspetto, cerchiamo di capire come si possa far fallire qualcosa che comincia con la parola “smart”. Eppure, l’auto che porta quel nome, a parte gli improperi di chi è convinto di trovare un parcheggio libero e invece si accorge che è occupato da una Smart, ha avuto un ottimo successo…

Qualsiasi iniziativa, anche la migliore, può diventare un fallimento, se viene raccontata nel modo sbagliato. E per raccontare qualcosa nel modo sbagliato, basta cambiare il significato alle parole, mascherarle, stravolgerle. Con lo smart working lo stravolgimento delle parole è stato abbastanza semplice da attuare: in Italia, soprattutto nella  pubblica amministrazione, è stato tradotto in “lavoro agile”, col benestare nientepopodimeno che dell’Accademia della Crusca. Però, il significato di smart non è esattamente agile e l’uso di questa parola è stata un’inconsapevole captatio malevolentiae perché da subito ha fatto sì che la sua accezione fosse associata quasi unicamente al concetto di conciliazione vita e lavoro, ideato negli Stati Uniti negli anni ‘70 e arrivato in Italia con 40 anni di ritardo. E passare dalla conciliazione vita e lavoro all’assistenza e ai casi umani, nella pubblica amministrazione, ci vuole veramente poco. Di conseguenza, la parola smart working (di cui fa parte anche il telelavoro, con buona pace di chi sostiene il contrario) ha permesso di creare uno strumento assistenziale che solleva le amministrazioni dall’obbligo sociale e morale di usare altri strumenti per assistere il personale con situazioni di disagio.

Purtroppo per noi, la parola agile lascia fuori altri aspetti legati allo smart working, altrettanto importanti, che rappresentano il vero cambio culturale in cui si trova immersa la società : i modelli comunicativi smart,  le dinamiche e i processi smart dell’Industria  4.0, il lavoro smart attraverso il cloud, le piattaforme virtuali e i sistemi interconnessi. Se il problema fosse solo la traduzione letteraria, non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, ma lasciare fuori gli aspetti centrali della trasformazione digitale non è solo una questione di traduzione, è una questione di fallimento. Di solito, le ragioni che conducono verso un fallimento sono sempre molteplici, ma hanno una madre comune: l’ignoranza. Nel caso specifico, ci sono anche ragioni minori; l’esercizio del potere, il bisogno di controllo, l’incapacità di pianificare e lavorare per obiettivi, la prerogativa di creare disuguaglianza, la burocrazia, la paura e altre virtù che la Fata Morgana non disdegna. Il problema è che l’ignoranza della Fata Morgana non riguarda soltanto il lavoro agile perché se una fata è incapace e in malafede non riesce ad attuare lo smart working, non riesce a pianificare le attività, non riesce ad analizzare i costi e a ottimizzare le spese, non riesce a lavorare a far lavorare per obiettivi, non riesce a gestire i processi lavorativi e non ha idea di cosa sia il benessere organizzativo. In rete si può leggere un working paper molto interessante (Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa vita italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, Tiraboschi, in WP CSDLE “Massimo D’Antona 335/2017), che fornisce un quadro chiaro della situazione italiana; quella che per i non addetti ai lavori è solo una sensazione, per gli esperti di diritto del lavoro è una certezza confermata dai fatti: gli ostacoli all’applicazione dello smart working non sono contenuti nella normativa, ma nella testa di chi dovrebbe attuarla. Se da una parte, la normativa c’è e lascia ampia libertà, dall’altra, la Fata Morgana, che non ha dimestichezza con la libertà, è resistente ad attuarla e ha bisogno delle imposizioni. Non dimentichiamo che l’Italia è quel Paese in cui, per obbligare i motociclisti a salvarsi la vita, è stato necessario fare una legge che imponesse l’obbligo di indossare il casco. La Fata Morgana non altererebbe mai gli equilibri melmosi di convenienze e connivenze, quando lo fa è perché c’è una rivoluzione in corso da cui non può sottrarsi o un’imposizione dall’alto. Da cui non può sottrarsi. Quando arriva l’imposizione da un provvedimento governativo o da un dirigente illuminato, la Fata Morgana agisce come è abituata a fare: in modo scomposto, cercando di tamponare l’emergenza. Il primo passo riguarda la costruzione del miraggio, il bando. E il lavoratore lo vede quel miraggio, ci crede. Dà fiducia alla Fata Morgana.  Vede la possibilità di crescere i figli serenamente senza correre di qua e di là, ma anche di non restare imbottigliato ore nel traffico. Vede la possibilità di lavorare dalle 21 alle 2 di notte perché col silenzio si concentra meglio e di spendere il proprio tempo senza doverne rendere conto. Perché il proprio tempo non può e non deve essere controllato: non bisogna mai perdere di vista che lo stipendio è il corrispettivo di un insieme di prestazioni, non di una manciata di ore. Vede la possibilità di vendere l’auto, perché una in famiglia è più che sufficiente, e di lasciar perdere colf e baby sitter, scoprendo che lo stipendio può bastare anche senza fare gli straordinari. Vede la possibilità di consumare meno risorse, per lasciarne un po’ anche agli altri, e di mangiare qualcosa di più sano dei pasti della mensa aziendale. Di solito, però, questo miraggio inizia a dissolversi quando al bando viene associato un regolamento più o meno fantasioso, più o meno scopiazzato da altri, più o meno pavido, più o meno ingiusto, più o meno discriminante. I regolamenti, si sa, sono fatti apposta per creare disuguaglianze e malcontenti. Dai regolamenti di telelavoro/smart working, e negli anni ne ho visti tanti, si percepisce subito il disegno della Fata Morgana: il lavoro agile deve sembrare un privilegio che il datore di lavoro “concede” al lavoratore. E in questo caso le parole “privilegio” e “concessione” sono fondamentali. La Fata Morgana è contemporaneamente buona e cattiva perché concede qualcosa riservata a pochi figli prediletti. E come si fa a individuare i figli prediletti? Con una gara a cui si può partecipare elencando una serie di disgrazie che vengono chiamate requisiti. E la Fata Morgana non si vergogna a proclamare vincitori persone che, per un motivo o per un altro, il premio della disgrazia non vorrebbero vincerlo. Per fortuna, non sempre i vincitori hanno problemi reali. Poiché si tratta di una gara, esistono anche partecipanti sleali, che producono false disgrazie, ingannano la Fata Morgana, e vincono non il lavoro agile, ma un consistente numero di giorni di ferie di cui nessuno chiederà mai conto. Perché la nostra dea, diciamo la verità, se è incapace a organizzare il lavoro, è abilissima a creare le condizioni per indurre i partecipanti a comportarsi meschinamente e a ingannarla.

Il miraggio scompare quasi del tutto quando una qualche commissione è chiamata a fare delle valutazioni oggettive per assegnare i premi. Se fosse un esperimento fisico, si potrebbe ricorrere alla teoria di propagazione degli errori, per dare dei risultati attendibili, ma nella pubblica amministrazione non serve né il rigore scientifico né tantomeno la trasparenza: le commissioni sono lo strumento con cui si somministrano ai lavoratori le ingiustizie mascherate da verità. È normale, secondo voi, che, per ottenere il lavoro agile, un lavoratore debba arrivare a chiedersi quanti punti vale essere in terapia oncologica? Non è umiliante pubblicare delle graduatorie di questo tipo, da cui non trae un reale beneficio né il lavoratore né il dirigente o il sindacalista di turno?  Questo sarebbe l’approccio “smart” al lavoro? Eppure, un ragionamento molto pratico e senza troppi fronzoli si potrebbe fare:basterebbe mettersi a fare i conti della serva e considerare le spese e i risparmi. Chiunque può farsi un’idea sommaria, consultando i dati relativi ai bilanci e alle piante organiche pubblicati sui siti web delle amministrazioni pubbliche. Le considerazioni che seguono rappresentano una misura spannometrica attraverso la quale stimare in modo grossolano, senza nessun rigore contabile, i possibili risparmi di un’ipotetica PA.  Mediamente, una Pubblica Amministrazione con 2500 dipendenti e alcune sedi sparse sul territorio sostiene una spesa annuale di circa 35.000.000 di euro (approssimazione ottenuta analizzando le voci dei bilanci dell’Istat, del Ministero dei Trasporti e dell’Inps) ripartiti in:

  • Buoni pasto
  • Manutenzioni e riparazioni
  • Acquisto di software, cancelleria e materiali di consumo
  • Utenze (elettricità, fonia, riscaldamento, acqua, etc)
  • Canoni di locazione immobili e noleggio attrezzature e mobilio
  • Pulizia e vigilanza

Supponiamo che la P.A. sia un grande condominio in cui ciascun dipendente possieda una piccola quota condominiale. Da questa estrema semplificazione si può dedurre che il “mantenimento” di un lavoratore all’interno di una sede, in una realtà con 2500 dipendenti e 35 milioni di euro di spesa annuale, costa circa 14.000 euro annui e che il costo giornaliero per tutti i dipendenti ammonta a circa 140.000 euro. Stipendio escluso, ovviamente. Considerando che il salario di un lavoratore costa alla comunità circa 25.000/28.000 euro annui, la spesa per mantenere un dipendente nella sua sede ammonta a circa la metà del suo stipendio. Spesa che potrebbe  essere decurtata almeno del 30%, attuando delle politiche serie di smart working: il risparmio, nel caso in esame, sarebbe approssimativamente di 10 milioni di euro l’anno. Se il vantaggio per il datore di lavoro e per la comunità è evidente, il vantaggio per un lavoratore è lapalissiano: chi deve percorrere 50 km al giorno in auto per recarsi sul posto di lavoro, usufruendo dello smart working, potrebbe ottenere un risparmio di circa 5.000 euro annui ripartiti in:

  • Costo auto e relativa manutenzione
  • Costo assicurazione
  • Costo carburante
  • Costo baby sitter
  • Costo colf/domestica
  • Spese accessorie (caffé, mensa, etc)

E l’ambiente? Facendo sempre riferimento ai 2500 lavoratori, e considerando che la percorrenza di 50 chilometri in auto produce circa 10Kg di CO2, il risparmio di CO2 giornaliero, se la metà dei lavoratori aderisse allo smart working,  ammonterebbe a 12.500Kg, quello annuale a 3125 tonnellate. Stesso discorso può essere fatto per il consumo di risorse: 3 litri di carburante al giorno moltiplicati per 1250 lavoratori fanno 3750 litri. In un anno, per recarsi in ufficio, si sprecano circa 1 milione di litri carburante.

Pur trattandosi di stime grossolane, sulle quali è possibile sollevare numerose questioni, i benefici che trarrebbe la collettività dall’attuazione dello smart working sono evidenti. Per questo, sembra impossibile che la Fata Morgana, quando è chiamata ad attuare lo smart working, non si chieda quale sia il costo di un lavoratore in ufficio e di un lavoratore “smart”, quale sia la spesa per mantenere le sedi e le postazioni, che non si chieda se sia il caso di cominciare a controllare i risultati e non gli obiettivi, che non si chieda quanto sia ingiusto creare inutili competizioni e disuguaglianze, che non si chieda quanto sia inutile misurare il tempo e non i risultati. Se si ponesse queste domande, però, sarebbe un altro mito, e la Fata Morgana è nata per far apparire i miraggi e farli scomparire.

di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati professioni e competenze Aidr

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