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Fake News: come bilanciare responsabilità e libertà di opinione

Fake News: come bilanciare responsabilità e libertà di opinione

19 Maggio 2017 0 Di Rita Dietrich

Come la presenza di fake news nei media on line influenza la credibilità e l’attendibilità di ognuno di noi. Vittime reali e giornalisti uniti insieme

Cosa è cambiato dal passato

Un tempo si diceva ‘E’ vero perchè l’ha detto la Tv’, oggi il televisore nella maggior parte dei casi è stato sostituito da internet quale fonte principale di informazioni. Tuttavia riconoscere fake news  o incontrare notizie private particolarmente denigranti per la reputazione di una persona, purtroppo non è così difficile (vedi anche: la Babele delle fake news).

L’utilizzo dei media on line e più specificatamente dei social possono infatti recare ancora più danno rispetto al passato.

Questo è dovuto alla permanenza e alla capacità di diffusione della notizia falsa. Internet oltre ad aver amplificato enormemente sia la quantità delle persone raggiungibili, non dimentica, e tiene traccia di qualsiasi notizia, se non viene rimossa manualmente.

Quando internet diventa un mostro: il caso Elisabetta Sterni

Le immagini e i video catturano, affascinano, creano empatia, rendono virale qualsiasi notizia, ma possono anche distruggere una persona.

E’ quello che è accaduto qualche mese fa a #Elisabetta Sterni, e prima di lei a Tiziana, e purtroppo chissà a quante altre ancora. Basta solo un momento di gioco e un po’ di imprudenza, a trasformare un incontro intimo in un video hard condiviso su facebook e su whatsApp. Tiziana non c’è l’ha fatta, dopo aver tentato di far perdere le sue tracce cambiando identità, si è suicidata. Elisabetta invece ha scelto di denunciare il fatto non solo alla polizia ma a tutti.

“I social non rovinano la vita, l’ignoranza di chi li usa con cattiveria e senza pensare alle conseguenze che lo fa”.    

Queste sono le parole che Elisabetta da mesi porta nelle stanze dei palazzi del potere, nelle trasmissioni, nelle scuole ed ovunque venga invitata a condannare con la sua testimonianza l’utilizzo spregiudicato di questi strumenti.

E se a diffamare è un giornalista?

Il codice penale prevede che il reato di diffamazione, come diretta conseguenza della divulgazione di fake news, riceva un trattamento differenziato se viene effettuato in modo privato o reso pubblico a mezzo stampa, considerando questo un aggravante che inasprisce sia le pene pecuniarie che quelle che prevedono la reclusione. Nonostante vi siano in discussione in Parlamento modifiche che prevedono multe fino a 50 mila euro in alternativa alla detenzione, il tema è ancora molto controverso e indefinito.

I giornalisti dovrebbero essere quindi i garanti della verità, quelli che scelgono l’obiettività come pilastro della propria professione, ma purtroppo questo oggi è severamente minacciato.

Se si analizza il numero dei casi di denuncia contro i giornalisti, secondo i dati che Ossigeno per l’Informazione ha ottenuto nel 2016 dal Ministero della Giustizia, i procedimenti fra il 2010 e il 2015 contro i giornalisti sono stati circa 8000, per lo più penali. Il 70% di essi, però, dopo anni di diatribe e ricorsi, si è risolto in un’antipatica e dispendiosa (circa 50 milioni di euro l’anno) bolla di sapone, poiché i giudici hanno trovato molte infondatezze. Del rimanente riscontrato colpevole, nonostante si cerchi di abolirla in ogni modo, sono arrivati a sentenza detentiva 155 giornalisti.

Ciò ha evidenziato come inasprendo le pene, la libertà di stampa possa essere molto minacciata, poiché facilmente si può condannare di fake news una verità che è invece ‘soltanto’ molto scomoda. Oppure più banalmente diventa un business per i cosiddetti “diffamati di professione”.

Ma chi sbaglia perché lo fa?

Sbagliare è umano. Ecco perchè il giornalista responsabile, non appena viene a conoscenza dell’errore ha modo di rettificare immediatamente la notizia senza dover subire alcun danno. Anzi è stato appurato che questo atteggiamento incrementi notevolmente la sua credibilità.

Diversamente accade se invece un professionista della comunicazione, grazie alle sue capacità, manipola l’informazione a favore di una linea editoriale imposta dall’esterno.

Il codice deontologico, in questi casi, permette al giornalista di rifiutarsi di scrivere qualcosa che non condivide, ma la realtà è ben diversa.

Il 65% di quelli che comunemente vengono chiamati giornalisti, sono dei precari, contrattualizzati o meno, che ricevono una retribuzione annua inferiore a 10 mila euro. La loro posizione è così fragile da essere facilmente ricattabile da correnti avverse alle loro indagini. Tutto ciò perché in Italia a differenza che in altri paesi occidentali, la flessibilità del lavoro autonomo non viene affatto riconosciuta ed apprezzata. Anzi visto l’esiguità dei compensi, non è neanche valorizzata. Questi precari sono le prime vittime di una libertà di stampa che fa acqua da tutte le parti.

A tale situazione occorre anche aggiungere l’esasperata velocizzazione che l’esigenza di avere tutto e subito ha imposto sul lavoro giornalistico. Poco tempo a disposizione ed abbondanza di informazioni rende il lavoro di sintesi quasi impossibile.

Proprio il tema degli errori fatti per eccessiva fretta è stato l’oggetto principale dell’intervento di Aron Pilhofer, ex editor del The Guardian e oggi docente alla Temple University in occasione del Festival internazionale del Giornalismo, tenutosi lo scorso 8 aprile a Perugia.

 

 

 

 

 

 

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