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Intervista a Massimo Fini: “Antimodernità e decrescita sono le uniche possibilità di futuro”

Intervista a Massimo Fini: “Antimodernità e decrescita sono le uniche possibilità di futuro”

20 Marzo 2023 2 Di Francesco Ghanaymi

Massimo Fini racconta come l’antimodernità e la decrescita siano le le uniche possibilità di futuro, oltre che presentare la sua ultima opera: Cieco.

Massimo Fini, scrittore e giornalista, vive a Milano. E’ autore di: “Il Conformista” (Marsilio, 2008), e di due fortunate biografie storiche: “Nerone. Duemila anni di calunnie” (1993), “Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta” (Mondadori, 1996). Per Marsilio ha pubblicato i saggi storico-filosofici: “La Ragione aveva Torto?” (1985, 2005), “Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità” (2002 e 2004), “Sudditi. Manifesto contro la democrazia” (2004), “Il Ribelle. Dalla A alla Z” (2006) e “La modernità di un antimoderno” (2016).

Scrive per il Fatto Quotidiano e ha da poco pubblicato “Cieco” (Marsilio, 2023, 11,40 €), in cui, con una prosa limpida, racconta, attraverso ciò che è diventato invisibile, la progressiva reclusione nel proprio corpo.

Partiamo da lei. Di lei Montanelli disse: “Non rispetta le regole. Non sta al gioco. Ed è questo che dà tanta forza alla sua frusta. Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non esistono più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano”. Lei si sente vittima di questo “rogo”, e soprattutto da parte di chi?

Indro Montanelli aveva colto nel segno: nel senso che, avendo io un pensiero in aperto contrasto con il pensiero dominante, non di oggi, ma dall’Illimunismo in poi, sono stato, per questo, a poco a poco emarginato. Com’è evidente, non mi si vedrà mai nelle televisioni o nelle trasmissioni che contano. Ecco un esempio: recentemente, Paolo Mieli ha intervistato Luciano Canfora sulla sua ultima pubblicazione “Catilina. Una rivoluzione mancata”; anch’io ho scritto “Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta”, nel 1996, cioè quasi un quarto di secolo prima di Canfora. Perchè non sono stato citato nell’intervista? Ecco, questa censura silenziosa, alla lunga, mi infastidice, anche se con le mie forze, sono riuscito a combatterla.

Bene: cos’è quindi per lei “Il vizio oscuro dell’occidente”, e cosa intende per antimodernità?

Il vizio dell’occidente, oscuro perchè forse non si rende nemmeno conto di averlo, è la pretesa di imporre la propria cultura, con le buone, ma spesso anche con le cattive, a popoli che hanno altre storie ed altre tradizioni. Occidente, in realtà, è una parola già di per sé sbagliata: perché contiene insieme gli Stati Uniti d’America e l’Europa, mentre l’Europa ha una storia diversa alle spalle, che comprende la grecità e la latinità. Comunque, in questi ultimi trent’anni, l’occidente ha portato avanti guerre, in buona parte ideologiche, per convertire gli altri paesi al proprio pensiero. Distruggendo, per esempio nell’Africa nera, forme di economia di sussistenza, autoproduzione e autoconsumo, che avevano segnato la prosperità di quelle popolazioni.

Perché in quello che è stato definite (definizione da lei non accettata) il migliore dei mondi possibili, si rivela un modello paranoico, basato sull’ossessiva proiezione nel futuro, dove l’individuo non può mai raggiungere un punto di equilibrio e di pace? E come, dunque, l’uomo occidentale si è creato il meccanismo perfetto e infallibile dell’infelicità (come spesso lei ricorda 566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci)?

Esistono due tipologie di sistemi: i sistemi statici, che non hanno un fine di progresso, e i sistemi dinamici, che invece hanno un fine di progresso. Questo ha conseguenze per ognuno di noi: perché raggiunto un gradino, devi salirne subito un altro, e poi un altro ancora. Non esistono momenti di equilibrio o di serenità, ed è questa la vera tragedia della modernità. Da qui derivano quei fenomeno che sono propri della modernità, come per esempio la nevrosi e la depressione, che nell’antichità, come nel mondo pre-industriale, non esistevano.

Tornando quindi al “Manifesto dell’Antimodernità” (che ho letto è stato firmato anche da Gigi Moncalvo): perché, secondo lei, liberalismo e marxismo, sono, o forse più correttamente erano, due facce della stessa medaglia? E non trova, che – per lo meno prima del crollo dell’Unione Sovietica, o anche del muro di Berlino – esistessero forme sociali diverse da quelle attuali?

Dunque, comunismo e liberismo nascono entrambe dall’Illumismo, e sono entrambe ottimiste, industriali e progressiste, per questo sono due facce della stessa medaglia. Sicuramente, con il crollo del comunismo, il liberismo ha perso ogni limite, e per questo prima o poi collaserà. Esiste però un’altra corrente di pensiero fondamentale che è il socialismo: mentre invece, infatti, il comunismo, quando riesce a realizzarsi, offre una buona dose di uguaglianza sociale, a discapito di tutti i diritti civili, il socialismo, che è molto diverso, è il tentativo di raggiungere una ragionevole uguaglianza sociale, mantenendo i diritti civili. Ovviamente, per questo, viene combatutto in tutto il mondo, come si può osservare in Venezuela o in Brasile.

In una ricerca recente, McKinsey ha sostenuto che la pandemia e la guerra hanno posto – in qualche modo – un serio limite alla globalizzazione, e alle ideologie che la globalizzazione, l’avevano fondata. Lei è d’accordo, o crede che la globalizzazione di uomini, di capitali, delle merci e dei diritti sia incontrovertibile?

La pandemia era un’ottima occasione per capire che tutta una serie di bisogni, di cui in realtà non abbiamo assolutamente bisogno, erano inutili. Non mi pare che sia andata così. Persino Fidel Castro dichiarò a Clinton che opporsi alla globalizzazione era come opporsi alla forza di gravità. Questo sicuramente è vero se al centro del sistema socio-economico si inserisce il denaro, ma diventa falso, se al centro del nostro sistema poniamo l’uomo. Concettualemnte è semplice, ma dal punto di vista pratico per il momento è praticamente impossibile.

Le muovo una critica: so che lei ha conosciuto Pasolini, ebbene un importante scrittore dell’antimodernità come Ferdinando Camon, disse di Pasolini (che aveva firmato l’introduzione di Camon per “Il quinto stato”) che quell’introduzione l’aveva accettata ma che Pasolini non aveva colto il corpo fondamentale del romanzo: cioè che la campagna era un mondo fondamentalmente tragico, di cui Pasolini aveva una visione mitica, e quindi fuorviante, perché in effetti non la conosceva. Non si sente “colpevole” del medesimo errore?

Più che altro, io prenderei spunto da “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, dove viene mostrata la fatica contadina, per cui la morte di una mucca è più grave di quella di un figlio, ma dove sono mostrati anche i pregi di quella società: cioè che il contadino (del mondo pre-industriale) campa del suo lavoro, non ha ordini, e per questo è molto più libero degli schiavi salariati, quindi di ognuno di noi, oggi.

C’è quindi una società esistente, di oggi o del passato, che lei sente meritevole di lode?

Prima di ucciderle, tutte le culture africane subsahariane, che rappresentavano un mondo molto diverso rispetto al nostro. Erano animisti, non monoteisti, e credevano che bastasse avere del cibo, dei vestiti, delle amicizie, un’insieme sociale per essere felici, a differenza di noi. Certamente poi l’Afghanistan, che era una cultura pre-ideologica, pre-politica e quasi pre-religiosa, dove valevano pochi, ma decisivi valori forti.

Per esempio?

Un esempio, per me fondamentale, riguarda la vicenda del Mullah Omar. Dopo l’invasione degli americani, lui fugge con i suoi seguaci. Siamo a questo punto, quando gli americani catturano Abdul Salam Zaeef, un talebano e collaboratore del Mullah, non particolarmente fanatico particolarmente coraggioso. Gli americani quindi pensano di potergli scucire dalla bocca ciò che solo gli interessa: dare indicazioni su dove si trova Omar. Prima lo torturano, comme d’habitude, poi gli promettono la libertà e un mucchio di dollari. E Zaeef risponde: “Non c’è prezzo per la vita di un amico e di un compagno di battaglia”. È a quest’etica, che chiamo pre-politica, pre-ideologica, pre-religiosa, che io mi sento vicino. Nel mondo del capitale ci si vende per quattro soldi.

E lei che rapporto ha con il denaro?

(Ride) Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia in cui di denaro non ce n’era né troppo, né troppo poco. Come mi disse Rudolf Nureyev (uno tra i più grandi danzatori del XX secolo insieme a Nižinskij e Baryšnikov), quando glielo chiesi – e lui era diventato ricchissimo – di denaro non ce ne deve essere troppo poco per non trovarsi in situazione abbiette, o inaccettabili; ma la ricchezza non sta nel denaro: sta nel talento, nei rapporti umani e sta nelle persone. Purtroppo non sono Nureyev ma credo che avesse ragione.

Per quanto riguarda la sua ultima pubblicazione “Cieco”, perché ha voluto scrivere un’opera così personale (la perdita della vista), e con quale finalità?

L’ho scritta perchè non volevo più occultare, come in passato ho fatto, questa grande limitazione, e poi perchè credo che nessuno, nemmeno Borges, abbia raccontato la sua cecità. Credo quindi che quest’opera sia abbastanza unica in questo senso. Naturalmente, ho cercato di trattare questo dramma – perchè di un dramma si tratta – con mano leggera, usando molto il sense of humor, il paradosso e il sarcasmo, e credo di esserci riuscito.

In “Nietzsche”, lei racconta che anche Nietzsche era semi-cieco; in “Il Mullah Omar” che il Mullah durante una battaglia viene ferito irrimediabilmente a un occhio e se lo strappa: vede un collegamento tra lei e questi suoi, se così possiamo definirli, modelli?

No, non lo vedo. Nietzsche è il più grande pensatore che l’umanità abbia espresso, e non solo è fecondo oggi, ma lo sarà anche nei secoli a venire. Il Mullah Omar è il simbolo del coraggio: io non avrei mai il coraggio di strapparmi un occhio. E non sono Nietzsche purtroppo, o per fortuna. Perchè era troppo avanti rispetto ai suoi tempi, e chi è troppo avanti rispetto ai suoi tempi, spesso impazzisce o fa una brutta fine. Come Maupassant. Insomma, non bisogno essere troppo intelligenti: nessuno qui però corre questo rischio (ride).

E qual è stato, in questo processo di perdita della vista, il momento più doloroso?

Forse quando ero a Capri con la mia fidanzata di allora, sotto un cielo stellatto meraviglioso e io lo vedevo molto offuscato. In quel momento capì che non avrei più visto il cielo stellato. Oppure per esempio che io – che ho sempre cercato di essere indipendente in tutto – ora dipendo da molte persone. Vede, in realtà, il tempo è il vero valore di una vita: Benjamin Franklin sosteneva che “Il tempo è denaro”, ma solo un pazzo può sostenere qualcosa del genere. Il tempo è tutto, mentre il denaro è ben poco al confronto.

Massimo Fini scrive per il Fatto Quotidiano e ha da poco pubblicato “Cieco” (Marsilio, 2023, 11,40 €), in cui, con una prosa limpida, racconta, attraverso ciò che è diventato invisibile, la progressiva reclusione nel proprio corpo.

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