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Israele, la sicurezza passa anche dalla creazione di uno Stato palestinese

Israele, la sicurezza passa anche dalla creazione di uno Stato palestinese

27 Giugno 2018 0 Di ItaliaNotizie24

Israele

Perché la geopolitica indica che la sicurezza di Israele aumenta e non diminuisce con la creazione di uno Stato (e un territorio) palestinese?

La sempre attuale tensione nella Striscia di Gaza rivela la posizione centrale che la questione israelo-palestinese riveste negli equilibri del Medio Oriente. Per meglio inquadrare il problema appare utile ripercorrere la vicenda dell’espansione territoriale di Israele e le motivazioni politiche e strategiche degli attori coinvolti.

Dal 1948 ad oggi l’espansione dello Stato di Israele

Alla sua creazione nel 1948, le frontiere di Israele corrispondevano alle aree popolate dagli ebrei nel XIX secolo: in prevalenza lungo la costa, ma non i territori dell’Israele biblica, ossia Giudea, Samaria (Cisgiordania per il palestinesi, o West Bank) e Gerusalemme, città santa delle tre religioni monoteiste.

Il conflitto provocato dagli arabi nel 1948 si è risolto in una loro grave sconfitta. Israele ha conquistato 6mila kmq di territori da cui c’è stato l’esodo di massa di 900 mila palestinesi: il 39 per cento di questi profughi è riparato in Cisgiordania; un altro 26 per cento si è rifugiato a Gaza; in Israele sono rimasti circa 180 mila arabi, i cui discendenti sono gli odierni arabi israeliani.

Nel 1967, la Guerra dei Sei Giorni scatenata da Israele, ha inciso ancor più radicalmente sulle mappe dell’area. Israele ha acquisìto quelli che sono comunemente chiamati “territori occupati”: il Sinai (restituito all’Egitto nel 1978 e definitivamente evacuato da Tsahal nel 1982), il Golan siriano, la Cisgiordania, Gaza e la parte araba di Gerusalemme (Gerusalemme Est).

Il conflitto del 1967 ha aggravato la questione dei profughi, con la fuga di 450 mila palestinesi dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania.

Il controllo di queste aree e, in particolare, della strategica Cisgiordania con le sue alture e le sue sorgenti, ha permesso a Israele di sviluppare un’aggressiva politica di colonizzazione nei territori che il piano delle Nazioni Unite aveva in origine riservato ai palestinesi: dal 1972 al 2014, il numero di coloni ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è passato da poco meno di 10 mila a oltre 750 mila.

Israeliani e palestinesi, obiettivi inconciliabili

Il problema palestinese è disarmante per la sua semplicità e, nel contempo, per la difficoltà estrema a trovare una soluzione. Questo perché – ad oggi – gli obiettivi politici delle parti sono inconciliabili: scopo dei palestinesi è uno Stato palestinese; uno scenario inaccettabile per Israele, che può tutt’al più ipotizzare forme di autonomia dei territori – non certo di sovranità piena.

La questione, poi, è aggravata da due dinamiche.

La prima è la politica israeliana di colonizzazione dei territori che secondo il piano dell’Onu avrebbero dovuto essere parte dello Stato palestinese. La seconda è il differenziale demografico, che vede i palestinesi crescere ad un ritmo superiore agli israeliani: sinora Israele vi ha fatto fronte con l’immigrazione di ebrei dall’ex Unione Sovietica, ma si tratta di una risposta destinata ad esaurirsi nel medio-lungo termine.

Israele ha inoltre un duplice problema strategico.

Il primo è il mai sopito rischio di isolamento internazionale. Innanzi tutto per il quadro geopolitico regionale, che vede lo Stato ebraico circondato da paesi arabi, se non ostili di certo non amici. In secondo luogo, per l’andamento altalenante del suo rapporto con l’Occidente e con il resto del mondo, che risente periodicamente degli eccessi dell’uso della forza di Israele, che non possono sempre essere derubricati a danni collaterali.

Israele ha inteso rispondere a questo dilemma investendo su uno strettissimo rapporto con gli Stati Uniti e dotandosi dell’arma nucleare.

Il secondo problema di Israele è la sua assenza di profondità strategica. In alcuni punti, dai confini più occidentali della Cisgiordania al Mar Mediterraneo, il suo territorio è largo meno di 20 km: di conseguenza, un attacco sferrato dalle alture della West Bank potrebbe agevolmente tagliare il paese in due.

Per questo, l’occupazione della Cisgiordania è da intendersi come una soluzione strutturale ad un problema strategico permanente. È anche in questo senso che va interpretata la politica di colonizzazione: una politica del fatto compiuto, cui – osservando la situazione con una lente realista – è difficile ipotizzare che Israele voglia rinunciare.

Nel 1991, Israele è stato costretto dagli Stati Uniti a tornare al tavolo delle trattative con l’Olp. I negoziati, sfociati negli accordi di “Oslo 1” nel 1993 e “Oslo 2” nel 1995, prevedevano l’autogoverno palestinese nella Striscia di Gaza, nella città di Gerico e in parte della Cisgiordania. Quest’ultima divisa in tre parti con differenti regimi amministrativi: zona A, B e C, l’ultima delle quali, corrispondente al 72 per cento della West Bank, sotto il controllo esclusivo dello Stato ebraico.

Nel 1995, il premier Itzak Rabin, forse l’unico fra i dirigenti politici di Israele ad accettare la prospettiva di uno Stato palestinese, venne assassinato da un suo compatriota. Si è aperta così una fase politica di alternanza Destra-Sinistra che è stata messa in crisi dalla Seconda Intifada, provocata dalla visita di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee nel 2000. Nel 2001, con l’elezione di Sharon a primo ministro si è rafforzata la spirale di violenza da ambo le parti.

L’11 settembre 2001 ha costituito una svolta epocale anche per la questione palestinese. Da questo momento in poi, nell’immaginario dell’Occidente, la figura del resistente palestinese è stata associata a quella del terrorista di Al Qaeda.

È in questa fase politica, fra dicembre 2001 e marzo 2002, che Israele ha lanciato due offensive di grande ampiezza con l’obiettivo puro e semplice di distruggere l’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò a dispetto della circostanza che i principali attentati dell’epoca non erano imputabili a Fatah, bensì alle formazioni integraliste palestinesi.

Appare chiaro che Hamas e la destra israeliana di Sharon avevano un interesse comune, la distruzione dell’Anp, vale a dire la prospettiva stessa di uno Stato palestinese: una prospettiva invisa tanto allo Stato ebraico quanto ad Hamas, il cui obiettivo ultimo resta la sparizione di Israele.

Nel mentre, si sono create le condizioni per intensificare la politica di colonizzazione israeliana e la disperazione dei palestinesi costituisce un inestimabile brodo di coltura per Hamas.

Nel 2002-2003 sono avvenuti due fatti significativi, un nuovo passo di Israele verso la separazione fisica dei due popoli.

Il primo, la costruzione della barriera di sicurezza che, oltre ad arginare il terrorismo, rispondeva a diverse esigenze: proteggere le colonie e annettere nuovi territori in Cisgiordania da un lato, spezzettare e disarticolare i territori cisgiordani sotto amministrazione palestinese dall’altro.

Il secondo è l’annuncio del ritiro di Israele e dei suoi coloni da Gaza. La Striscia non faceva parte dell’Israele del progetto sionista. Il suo valore strategico è limitato. La mossa, posta in essere nel 2005, ha consentito allo Stato ebraico di liberarsi di una spina nel fianco, in quanto la protezione di poche migliaia di coloni aveva un costo sproporzionato, e di concentrare i propri sforzi per rafforzare la presa su Gerusalemme Est e Cisgiordania.

Nel 2004, la morte di Yasser Arafat ha simboleggiato il tramonto del nazionalismo laico palestinese a vantaggio dell’islamismo radicale, incarnato dal trionfo elettorale di Hamas nel 2006. 

I rapporti israelo-palestinesi continuano a passare da fasi di aperto conflitto a momenti di dialogo costruttivo. Da momenti bellici come l’operazione “Piombo Fuso” su Gaza nel 2008, a fasi negoziali come quella che nel 2011 ha portato alla liberazione del caporale franco-israeliano Gilad Shalit in cambio di oltre mille prigionieri palestinesi.

Dialogo costruttivo si, ma non però sul tema strategico dei territori occupati, che non vede progressi politici dagli anni ‘90 del XX secolo.

2018: Israele compie 70 anni ma appare debole come mai prima

Nel 2018, Israele compie 70 anni di vita. In poco più di tre generazioni, lo Stato ebraico si è espanso in misura considerevole e prosegue con rinnovata intensità la sua politica di colonizzazione di Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Dal canto loro, i palestinesi non sono riusciti a conseguire i propri obiettivi: non quello, radicale quanto irrealizzabile sotto il profilo politico prima ancora che militare, dell’eliminazione di Israele; non quello di uno Stato sovrano palestinese, divenuto la linea ufficiale dell’Olp nel 1991.

Eppure, i fatti di Gaza della scorsa primavera sembrano indicare che, a dispetto di questa apparente cristallizzazione, il quadro sia in movimento.

Negli ultimi anni, con “Piombo Fuso” e, soprattutto con la guerra israelo-libanese del 2006, che ha visto le unità di Tsahal inchiodate nel Libano meridionale dalle milizie di Hezbollah e la sostanziale incapacità dell’aviazione di Tel Aviv di conseguire risultati strategici, il mito dell’invincibilità dell’Idf si è offuscato.

In questa cornice, l’impiego della forza da parte di Israele contro i manifestanti di Gaza, che è difficile definire proporzionata, sembra paradossalmente un segnale di debolezza. Come se, per arginare una manifestazione popolare, per quanto movimentata, uno Stato non avesse altra opzione che schierare unità militari e cecchini. Come se Israele si fosse trovato all’improvviso davanti ad una situazione imprevista, che si è rivelata incapace di gestire. Come se, soprattutto, avesse esaurito le risposte politiche a una questione che è innanzi tutto politica.

E questo deve preoccupare. Nella questione palestinese Israele continua a giocarsi l’esistenza. E quando un soggetto politico deve assicurare la propria sopravvivenza, il rischio di guerra è concreto. Una guerra che potrebbe incendiare tutto il Medio Oriente e anche divampare oltre: nella regione hanno rilevanti interessi altre potenze, anche esterne, come Stati Uniti e Russia, e Israele dispone di armi nucleari che, se vedesse minacciata la propria esistenza, potrebbe impiegare.

Dal canto loro, i palestinesi, ancora non hanno ottenuto l’obiettivo di avere un loro Stato, ma periodicamente rialzano la testa a testimonianza del perdurare della loro volontà di costituirsi in soggetto politico. E quello che tutti gli attori internazionali devono tenere a mente è che le vittorie sono politiche, non militari. Fino a quando esisterà un’aspirazione dei palestinesi ad avere un loro Stato, questo sarà un dato politico di cui tenere conto.

A fronte del rischio che la regione possa incendiarsi, sarebbe bene che le potenze coinvolte comprendano che una soluzione alla questione palestinese passa necessariamente da reciproche concessioni: sicurezza in cambio del riconoscimento della soggettività politica della Palestina, cui deve corrispondere un territorio.

Si spera che le parti abbiano ben chiaro che una conclusione durevole del problema palestinese passa da una soluzione politica, non militare. Difficile capire se la nascita di uno Stato palestinese potrebbe mai rappresentare una minaccia per Israele. Quello che fin da ora è certo però, è che l’assenza di uno Stato palestinese continua a favorire la coagulazione di forze ostili allo Stato ebraico.

L’articolo Israele, la sicurezza passa anche dalla creazione di uno Stato palestinese proviene da Diplomazia Italiana.

27 giugno 2018 | 12:02


Fonte Originale: https://www.diplomaziaitaliana.it/israele-la-sicurezza-passa-anche-dalla-creazione-di-uno-stato-palestinese/

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