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Perché Alitalia non può e non deve fallire

Perché Alitalia non può e non deve fallire

17 Marzo 2021 0 Di ItaliaNotizie24

Quando si parla di Alitalia, tutti (o quasi) ritengono necessario il fallimento. Ecco perché, invece, la ex compagnia di bandiera non può e non deve sparire.

Alitalia, una storia che non merita di fallire

Quando si parla di Alitalia e del destino della nostra ex compagnia di bandiera, la soluzione che tutti (o quasi) reputano più consona è quella del fallimento

E’ ormai sport nazionale. Come se il fallimento di Alitalia portasse cospicui vantaggi a tutti noi.

Mentre sulla compagnia di Via Nassetti c’è bisogno di una riflessione seria e a “bocce ferme” per evitare di commettere errori che il Paese non può permettersi.

Partiamo da una verità incontrovertibile: Alitalia è stata ed è un pozzo senza fine. Brucia soldi e non riesce a presentare un bilancio in attivo ormai da tempo immemore.

Basterebbe questo per spingere tutti noi a dire che deve chiudere. Ed in effetti, i più, dicono proprio questo. E’ comprensibile ma non auspicabile. Anche perché la convinzione è che la compagnia sia in perdita per quelli che vengono definiti “i privilegi dei dipendenti”.

Compagnia privata con Ccnl ad hoc

Facciamo chiarezza: dal 2008 Alitalia non è più una compagnia di proprietà pubblica e moltissime cose, da allora, sono cambiante, compresi stipendi e benefit.

In primis, ciò che pochi sanno, i dipendenti Alitalia non vengono retribuiti secondo il CCNL di settore ma con un contratto ‘ad hoc’ introdotto nel 2008 proprio per rilanciare la compagnia. Un contratto, ovviamente, al ribasso.

Come fu per la Fiat di Pomigliano, i dipendenti (quelli definiti privilegiati), con il loro assenso, diedero il via libera ad una contrazione di diritti e salario. Lo fecero per senso di responsabilità nei confronti di una gloriosa compagnia e con la speranza di poter tornare protagonisti di una nuova stagione.

Oltre ad un nuovo CCNL la nuova proprietà pretese un taglio drastico del personale. I più furono messi in Cig in attesa di tempi migliori, ma in realtà quella Cig fu il primo passo verso l’esclusione dal perimetro aziendale.

Per inciso: lo stipendio definito ‘CAI’ vale il 20% circa in meno del CCNL di settore. Bel privilegio!

Ma nessuno dice un’altra cosa di quella privatizzazione e allora proviamo a spiegarlo.

Alitalia rileva i debiti e i dipendenti di Airone

Alitalia doveva ripartire senza debiti e senza surplus di personale. E’ andata davvero così? Ovviamente no. All’epoca, la politica volle la fusione con Airone di Totto, un’altra compagnia messa maluccio ma di proprietà privata, indebitata con banche che non vedevano l’ora di ‘”rientrare”e con società di leasing con cui aveva sottoscritto contratti onerosi.

Risultato: Alitalia si ritrovò con i debiti di Airone e con i suoi dipendenti. Di fatto i dipendenti Alitalia messi in cassa integrazione furono immediatamente rimpiazzati dai dipendenti di Airone.

Ma non solo: gli stagionali di Airone, a seguito dell’acquisizione, fecero valere la continuità aziendale e dunque l’azianità ‘stagionale’ tanto da chiedere al giudice del lavoro di essere assunti a tempo indeterminato. Cosa che di fatto avvenne a scapito dei colleghi della ex compagnia di bandiera che invece erano partiti nuovamente da zero.

Per la compagnia una doppia beffa: stop all’assunzione degli stagionali storici e un numero di dipendenti non più in linea con il bisogno effettivo.

Con queste premesse e le scelte scellerate sulla Roma – Milano e il mancato sviluppo del lungo raggio, il fallimento dell’operazione non poteva essere evitato.

Poste, un investimento per far decollare Mistral 

E pure le operazioni in corso d’opera per rimettere a posto i conti hanno rappresentato una versa presa in giro. Come, per esempio, quella di Poste che investì 75 milioni in Alitalia. Si disse che lo Stato in qualche maniera stesse ancora finanziando la compagnia. In realtà fu Alitalia a ‘finanziare’ Poste: come per magia, infatti, dopo il versamento del capitale e l’entrata nella società di Poste, la Mistral, compagnia fondata da Bud Spencer e rilevata proprio da Poste, inizia a volare per conto di Alitalia.

Mistral, in condizioni finanziarie non floride, fino a quel momento si limitava a trasportare la posta e a volare come charter o in continuità territoriale. Con l’entrata di Poste in Alitalia invece inizia a coprire rotte di linea in maniera quotidiana per conto dell’ex compagnia di bandiera e per questo servizio viene ovviamente retribuita. Un’operazione che permette alla Mistral di avere un po’ di ossigeno.

Credete ancora che i 75 milioni versati fossero per Alitalia?

L’arrivo di Etihad

Il secondo tentativo di rilancio è frutto di una serrata corte che il Governo dell’epoca fa alla compagnia emiratina. A novembre 2014, con il 49%, Etihad entra ufficialmente nel capitale Alitalia.

Tutti festeggiano per l’alleanza con una delle compagnie emergenti del pianeta. I primi 387 milioni, per rilevare la quota del 49% della nuova Alitalia. Altri 112,5 milioni per avere il 75% del programma Mille Miglia. Ancora 60 (scesi poi a 39) milioni che Etihad versa ad Alitalia per rilevare cinque coppie di slot nello scalo londinese di Heathrow.

Tutto lineare? Anche no!

Si scopre che Etihad cede in leasing al Governo italiano un Airbus A340-500 per la cifra di 169 milioni di euro. E pretende che l’addestramento del personale di terra e di volo di Alitalia fosse fatto ad Abu Dhabi ricavandone altri 50 milioni. Inoltre lucra su uno degli assett in attivo della compagnia italiana, il programma Mille Miglia, di cui detiene la maggioranza.

Ma non finisci qui: Alitalia dopo essere passata alla cassa per la vendita degli slot londinesi, affitta quegli stessi slot da Etihad per oltre 300mila euro al mese. Inoltre, Etihad usa Alitalia come bancomat per ogni tipo di party e per qualsiasi spesa di rappresentanza.

L’avventura di chiude nel 2017. I vertici aziendali chiedono ulteriori sacrifici ai lavoratori che sono chiamati a votare un accordo ancora più penalizzante del contratto ‘CAI’. I sindacati caldeggiano il ‘si’, i lavoratori dicono ‘no’. Gli emiratini battono in ritirata, la magistratura apre un’inchiesta con l’ipotesi di vari reati di bancarotta.

Anche in questo caso la domanda è obbligatoria: gli oltre 500 milioni di Etihad servivano davvero per ‘salvare’ Alitalia?

Siamo praticamente ai giorni nostri, la pandemia ha messo in ginocchio tutte le compagnie del pianeta. Alitalia ha bisogno dei ristori per rimanere in piedi e per sperare ancora di non morire.

Ecco perché al Paese serve Alitalia

Siamo giunti al punto: perché al Paese serve Alitalia e perché i soldi spesi fino ad ora rappresentano il male minore?

In primis: il settore del trasporto aereo è strategico per ogni nazione, in quanto deve tener conto delle esigenze del Paese e non solo di quelle, pur importanti del bilancio.

Una nazione come l’Italia, a fortissima vocazione turistica, deve poter contare su una compagnia nazionale, e non si può “trattare” sulle rotte, anche quelle che non volano in attivo.

Secondo aspetto: i dipendenti. Assodato che non sono dei privilegiati, è lapalissiano che 12mila persone per strada, più l’indotto, avrebbero rappresentato in passato come oggi, un esercito a cui garantire ammortizzatori sociali onerosi a carico dei contribuenti.

Mentre in questi anni, il sostegno anche economico (briciole sia chiaro, perché questo è arrivato ai dipendenti) ha permesso a 12 mila persone di non perdere il lavoro, di pagare l’Irpef, i contributi e di spendere.

Quanto, dunque, è tornato allo Stato? Confidiamo in analisi meno superficiali.

Per chiudere:

Alitalia sconta un managment non all’altezza, soprattutto ai livelli intermedi, quelli che sopravvivono alle nuove società.

Ma anche una concorrenza sleale. Una compagnia per far quadrare i conti deve emettere biglietti a costi in linea con le spese. Ma se c’è chi continua a sfornare ticket a 40 euro, per voli di corto e medio raggio, tanto il restante lo mettono le Regioni sotto forma di operazioni di marketing, non se ne verrà mai a capo.

La sola Ryanair, per capirci, incassa milioni euro all’anno per continuare a volare su specifici aeroporti italiani. Soldi pubblici su cui nessuno fiata.

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