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Sulla Siria la realpolitik impone prudenza

Sulla Siria la realpolitik impone prudenza

16 Aprile 2018 0 Di ItaliaNotizie24

Sulla crisi in Siria l’Italia ha interesse a prendere le distanze da ogni linea avventata. E’ urgente rilanciare il dialogo diplomatico, che è l’unico a poter assicurare una soluzione politica e quindi duratura.

Per l’Italia sulla crisi in Siria serve prudenza, non avventatezza

Il bombardamento sulla Siria effettuato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia come ritorsione per l’asserito uso di armi chimiche da parte del regime di Assad ispira alcuni spunti di riflessione.

Il conflitto in Siria ha tutte le caratteristiche di una guerra civile. Una situazione in cui tradizionalmente le parti in causa chiamano in aiuto potenze esterne, con il risultato di aumentare la durata e l’intensità del conflitto.

Esso è per molti versi anche una guerra per procura, di proxy war, con potenze esterne che intervengono per mezzo di altri attori: ciò non tanto e non solo per mantenere o sovvertire lo status quo a Damasco, quanto per regolare rapporti ed equilibri che con la Siria sono connessi solo in parte. Infatti oltre a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, sono coinvolti nello scacchiere siriano anche Russia, Iran ed Hezbollah, Turchia, Israele, nonché diversi Paesi del Golfo Persico.

Tanti attori quindi, fra cui potenze globali, altre nucleari e attori regionali. E interessi divergenti e, in alcuni casi, esistenziali. Di conseguenza, la crisi siriana presenta un elevato rischio di contagio che va ben oltre i confini del quadrante mediorientale.

All’indomani della rielezione di Putin, si era pronosticato un irrigidimento degli Stati Uniti verso la Russia: ciò con l’obiettivo di scongiurare la nascita di un blocco euro-russo, magari impegnando Mosca in altri teatri, come la Siria, per costringerla a disperdere le proprie forze. L’allineamento di Gran Bretagna e Francia con gli Stati Uniti sulla crisi siriana, che comporta un innalzamento della tensione con Mosca, sembra anche corrispondere a questo scenario.

Si osservava anche che la vittoria militare di Assad è un successo strategico che assicura alla Russia un ruolo centrale nel contesto internazionale, e costituisce un risultato cui non vorrà rinunciare. Di conseguenza, è d’obbligo pensare che ogni azione ostile volta a sovvertire questo risultato verrebbe contrastata da Mosca con altrettanta intensità. Le dichiarazioni ufficiali fatte prima dell’offensiva, secondo cui la Russia avrebbe risposto ad attacchi contro le sue forze non solo intercettando i missili nemici, ma anche mettendo nel mirino i vettori (ossia le forze aeree e navali da cui vengono lanciati, ma possibilmente anche le basi da cui queste muovono), sono indicative della volontà politica russa di non cedere.

Ora, da un lato gli attacchi non hanno messo nel mirino le forze russe e sono stati limitati nel tempo (un’ora circa) e negli obiettivi (tre). Dall’altro, il Presidente Trump ha dichiarato che la missione è compiuta. Questo lascia desumere due dati. Primo, che per ora l’offensiva militare occidentale è conclusa. Secondo, che le parti non hanno mai interrotto il dialogo e lo scambio di informazioni: i russi sarebbero stati avvisati dell’attacco e – con ogni probabilità degli obiettivi – ciò che avrebbe permesso di risparmiare vite umane e, soprattutto, prevenuto il rischio di una escalation fra Washington e Mosca, dagli esiti imprevedibili.

In altri termini, al di là delle dure schermaglie verbali cui si assistito anche all’ONU, le modalità e la durata dell’attacco occidentale incoraggiano a ritenere che Stati Uniti e Russia sono attenti a non superare la linea rossa, oltre la quale c’è lo spettro dello scontro militare diretto. Se questo era prevedibile per Putin, la cui freddezza da maestro di scacchi è già stata testata in diverse occasioni anche in Siria (si pensi alla gestione della crisi innescata dall’abbattimento di un jet russo ad opera della Turchia nel 2015), a ben vedere anche Trump, a dispetto del suo uso sopra le righe di Twitter e del ritratto che ne fanno i media, ha dato prova di misura.

Le guerre si vincono politicamente, non militarmente. In questa prospettiva, l’attacco non nasconde la circostanza che oggi Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non appaiono avere un progetto politico per la Siria: è sfumato l’obiettivo del cambio di regime a Damasco, così come quello di recidere i rapporti fra Siria da un lato e Mosca, Teheran ed Hezbollah dall’altro. E un altro disegno non è dato vederlo.

In questo senso, i bombardamenti hanno qualcosa di velleitario, come a riaffermare un primato tecnologico-militare, non certo uno politico. E anche sulla superiorità tecnologica-militare, almeno a livello di teatro è lecito nutrire riserve, tenuto conto che i missili occidentali sarebbero stati in ampia misura intercettati dalle difese siriane. In altri termini, quello siriano è un teatro nel quale nessuno dispone di forze soverchianti.

Ad ogni modo, Assad è oggi saldo al potere, grazie al decisivo intervento di Mosca. Ma la vittoria della Russia e della Siria è soprattutto politica, non militare, perché la maggior parte della popolazione siriana non sembra affatto scontenta di tornare sotto il governo di Assad.

Del resto, i siriani che hanno avuto la sventura di sottostare al brutale dominio dell’ISIS cosa avrebbero dovuto preferire?

Sconfitti i jihadisti e mandati all’aria i piani di regime change a Damasco, Assad si accinge ora a riconquistare le ultime sacche di resistenza. A nord-ovest, verso Aleppo, dove si rischiano frizioni con la Turchia. Al centro, fra Homs e Hama. A sud, ai confini con Libano e Israele e verso il Golan, dove l’esercito siriano è affiancato da Hezbollah e unità dell’Iran, ed è quindi alta la possibilità di una confronto con lo Stato ebraico, che ha un interesse vitale a non vedere l’influenza di Teheran estendersi fino ai suoi confini.

Tutto porta quindi a pensare che il conflitto in Siria sia purtroppo destinato a continuare, sotto diversa forma.

Questo conduce ad un altro profilo del problema. In assenza di prove, intervenire in armi in situazioni di crisi alla lunga mina la credibilità degli attori. Sul blog Gli occhi della guerra Matteo Carnieletto e Gian Micalessin e Sebastiano Caputo elencano diverse notizie di atrocità – poi rivelatesi infondate o comunque non attribuibili ai presunti responsabili – che sono state all’origine delle guerre in Irak e in Libia: precedenti sinistri i cui disastrosi effetti sono lungi dall’essersi esauriti, che dovrebbero ispirare massima prudenza a tutti, non esclusi i mezzi di informazione.

Ora, se si prende in esame il secondo dopoguerra è un dato di fatto che la tecnica del “false flag” è stata purtroppo in prevalenza adottata da alleati e partner dell’Italia.

Già in precedenza, si era ricordata l’infelice tendenza della politica estera italiana a restare invischiata in alleanze asimmetriche. Alleanze in cui gli interessi e gli obiettivi dell’alleato principale hanno finito per prevalere su quelli dell’Italia, che alla lunga si è ritrovata ad agire – o, peggio, a combattere – per conto altrui.

Già gli interessi di Washington, Londra e Parigi nel Mediterraneo e in Medio Oriente non sono in linea con quelli di Roma: si pensi ad esempio all’intervento in Libia, che aveva fra i suoi scopi anche quello di ridurre l’influenza italiana  e alla circostanza che il nostro Paese è stato poi lasciato solo a gestirne le disastrose conseguenze, non ultima la crisi migratoria.

Quindi, a maggior ragione che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non hanno un disegno politico per la Siria, l’Italia ha interesse a prendere le distanze da ogni linea avventata: primo, perché l’Italia ha un interesse strategico a preservare la stabilità del Mediterraneo e del Medio Oriente, che sarebbe invece minata dal rinfocolarsi e dall’espandersi del conflitto; secondo, perché i precedenti indicano che l’Italia finirebbe per ritrovarsi abbandonata in prima linea a gestire le conseguenze della crisi; terzo, perché l’Italia si esporrebbe a tensioni inutili con potenze con cui ha invece interesse a collaborare.

Bene quindi ha fatto il premier Gentiloni a chiedere che non si inneschi una escalation in Siria e a fare presente che gli attacchi non sono partiti dalle nostre basi.

Meglio ancora Matteo Salvini che, con più chiarezza degli altri protagonisti della vita politica italiana, ha definito l’attacco in Siria un pericoloso errore. Un acritico assenso alla linea di Washington, Londra e Parigi rischierebbe infatti di incoraggiare pericolose fughe in avanti. Invece, un franco e leale dissenso, che sottolinei il comune interesse ad una soluzione politica chiarendo ai nostri partner che non siamo disponibili a inseguirli nei loro salti nel buio, potrebbe quanto meno indurli a riflettere sull’opportunità di adottare posizioni più equilibrate. Visto che in Italia non si è abituati ad atteggiamenti così franchi con gli alleati, specie quelli principali, è utile ricordare che quella di Salvini è una manifestazione di leadership.

E che l’attacco sia stato un pericoloso errore è provato da diverse ragioni.

Primo, la vicenda dell’attacco chimico non è ancora chiarita e pertanto, sul piano politico, rischia di rivelarsi un boomerang, che potrebbe minare la credibilità di tutto l’Occidente. L’epoca delle fialette agitate all’ONU per innescare guerre si è conclusa, si spera, per sempre.

Secondo, come era lecito attendersi i bombardamenti occidentali non hanno avuto effetti sulla dinamica del conflitto siriano, che ha ormai un chiaro vincitore. Volenti o nolenti, di questo dato politico va preso atto: prima o poi con Assad bisogna tornare a parlare.

Terzo, il protrarsi della guerra in Siria è ormai inaccettabile sul piano politico e su quello umanitario. Vanificati gli gli scopi politici – caduta di Assad e cambio delle alleanze di Damasco – la guerra politicamente non ha più senso, a meno che attori esterni non abbiano un preciso interesse alla prosecuzione artificiosa del conflitto e al mantenimento del caos. Parimenti, sette anni di conflitto e milioni di vittime, fra morti, feriti e sfollati, sono un prezzo smisurato per qualsiasi scopo politico. È preciso dovere della comunità internazionale mettere termine a questa vergogna.

Quarto – e di conseguenza – il tempo delle minacce e delle armi deve finire. La crisi siriana si riverbera su altre questioni che hanno portata globale, come il rapporto Occidente-Russia. Questo clima di nuova Guerra Fredda, quando non di conflitto mondiale imminente, si riverbera sull’agire degli Stati, sulla militarizzazione del linguaggio politico, sulla narrativa dei media e, quel che è peggio, sulle coscienze collettive dei popoli. Una china pericolosa, questa, che va invertita con decisione. Di conseguenza, è urgente che chi di dovere si sieda ad un tavolo e rilanci il dialogo diplomatico, che è l’unico a poter assicurare una soluzione politica – e quindi duratura – alla guerra in Siria.

L’articolo Sulla Siria la realpolitik impone prudenza proviene da Diplomazia Italiana.

16 aprile 2018 | 12:12


Fonte Originale: https://www.diplomaziaitaliana.it/siria-realpolitik/

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