
Giuseppe De Donno e la traiettoria tortuosa del suo “proiettile magico”
28 Luglio 2021Si chiamava Giuseppe De Donno, era un primario pneumologo ben noto all’opinione pubblica per la sua battaglia a favore della plasmaferesi (il plasma degli immuni) contro la malattia da Covid. Il suo raggelante suicidio in casa nel tardo pomeriggio di ieri ha lasciato attoniti tutti, mondo scientifico e comunità. Perché il paladino del siero del popolo ha deciso di togliersi la vita?
Morte De Donno e il ritardo della notizia sulla stampa
Dietro ogni personaggio pubblico c’è una storia privata e personale che non ci permettiamo in alcun modo di interpretare e percorrere, e che contiene certamente tutte le risposte che solo a quella sfera attengono, soprattutto in un tragico caso di suicidio. Dove il rispetto per l’immenso dolore della famiglia, della moglie, dei figli e della rete di affetti, é predominante e non concede sconti alla notizia, seppur di pubblico interesse.
Tuttavia fin dai primi momenti in cui la notizia é stata intercettata e divulgata dai social media, ci siamo chiesti perché, mentre la morte del noto primario diventava rapidamente topic trend su Twitter, le maggiori testate nazionali non riprendessero quanto accaduto in tempi rapidi. La risposta che ci siamo dati oscilla tra due possibili verità: la paura di alimentare a caldo quel sacro fuoco di ostilità sociale che brucia da giorni in tema di vaccini tra favorevoli e contrari e che certamente una tale notizia avrebbe riattizzato e manipolato, oppure, per una volta, senza lasciarsi sciacallare dalla fretta dell’informazione, adottare la prudenza della verifica attraverso fonti certe e confermate.
Una tragedia che non deve essere manipolata
In altri tempi, appurata la veridicità, ne avremmo scritto subito ieri sera. Lo avremmo fatto perché avevamo sempre seguito e approfondito tutto l’iter delle sue cure e della sua parabola di popolarità. Abbiamo desistito perché, forse per la prima volta nella vita professionale di chi scrive, sono prevalse la stanchezza e la resa. La stanchezza di dover veder fiorire tra i commenti del sito e dei social, quel pubblico aggressivo e orientato al pensiero granitico e ottuso che minaccia e insulta senza contraddittorio e senza approfondimento. La resa invece é l’arrendersi all’imbarazzo di veder tradurre la cronaca, cioé l’asse portante della nostra professione, in opinioni da strada che confutano ideologicamente e rabbiosamente verità di cui pochissimo o nulla sanno i contestatori iracondi.
Su tutto ciò é invece poi prevalsa l’etica, quella di una professione che non può sconfessare se stessa, le fonti, la scienza e i fatti. E che attraverso ciò spera di omaggiare anche la memoria di un professionista che, da uomo semplice, come amava definirsi, ma istruito e integro, quale ha dimostrato pubblicamente di essere, non merita certamente di tradursi in un’icona dei negazionisti e dei complottasti, personaggi antitetici alla sua professione e che la sua lotta al virus la avvelenano ogni giorno di veleni umani.
De Donno e la plasmaferesi
L’ascesa pubblica del professor De Donno iniziò con la prima ondata pandemica, quando il primario, pneumologo dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, iniziò ad appassionarsi ai promettenti risultati della plasmaferesi, (e noi ne parlammo qui ) cioè il siero immune dei guariti che, iniettato nei malati Covid sembrava combattere rapidamente la carica virale.E portare alla guarigione.
Vale la pena sottolineare che definire “inventore” della plasmaferesi De Donno é del tutto errato, sia perché si tratta di una terapia che ha storia antichissima, sia perché nel caso specifico, ovvero nel corso della pandemia, questo studio é stato iniziato e condotto dall’ospedale di Pavia che ha arruolato Mantova nella sperimentazione. Lo stesso De Donno chiarì a più riprese di non esserne l’inventore ma lo sperimentatore e il più accanito sostenitore.
De Donno appariva, e certamente era, realmente animato da intenti genuini, contro le multinazionali del farmaco e contro la politica tentennante e tergiversante del ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Aifa, del Comitato tecnico scientifico e di tutta la burocrazia, amministrativa e politica che, mentre i suoi pazienti annegavano nella fame d’aria, richiedeva tempi biblici per ottenere risposte.
Ma era anche un uomo di scienza e di corsia, ricorso alla divulgazione via social per necessità ma poi travolto da quella stessa ondata di popolarità cui la scienza e non la fama popolare, non riconosceva lo stesso valore totalizzante a quello che lui chiamava il suo “proiettile magico” che poi nell’economia della pandemia, non era così magico come credeva. Ma forse la popolarità e gli scontri furiosi con molti colleghi non sono riusciti a fargliene vedere, oltre i meriti, i limiti oggettivi.
De Donno in quei mesi era circondato da un ufficio stampa nosocomiale strutturato quanto quello di un ministero di punta, inavvicinabile alla stampa se non quella qualificabile con il pedigree delle grandi testate, sovradimensionato al suo ruolo ma non al suo ascendente ego professionale del momento. Eppure le grandi testate continuavano a snobbarlo.
Invece De Donno in quei momenti sognava, per la sua scienza, l’Olimpo che una violenta popolarità gli aveva fatto credere di poter raggiungere, una popolarità social molto più effimera di quella scientifica, ma molto più pericolosa da maneggiare.
La disillusione delle risposte mondo scientifico
Non servirà a molto ribadire qui che la comunità scientifica ha poi detto no (dopo averlo messo in sperimentazione in molte, non tutte, le regioni e anche all’estero) al siero degli immuni.
Bisognerebbe entrare nel merito e cercare di spiegare perché ha detto no, e quali sono gli studi finali pubblicati sulle più accreditate riviste scientifiche. Dovremmo parlare di studi randomizzati e di campionatura statistica, di siero e placebo, o di combinazioni di farmaci antivirali, ma temiamo che non servirebbe alla cronaca perché materia scientifica e non narrativa. E chi cerca gli studi scientifici conosce le riviste di riferimento. Mentre chi vuole più semplicemente approfondire attraverso una delle figure professionali più vicine a De Donno, il primario di ematologia del Poma di Mantova Massimo Franchini, può farlo attraverso questa intervista rilasciata durante la seconda ondata pandemica invernale alla Gazzetta di Mantova.
Non saremo quindi noi ad insistere sui risultati scientifici di studi condotti su una platea più vasta dei 200 totali pazienti di De Donno, e sulle percentuali di successo nei diversi stadi della malattia. Chi non crede nella validità di quei studi scientifici accreditati continuerà ad obiettare che sono pilotati o taroccati.
I limiti del siero sui grandi numeri della pandemia
Vogliamo invece riflettere su un’ovvietà inconfutabile in un contesto pandemico: il siero degli immuni si ricava SOLO da un’esigua percentuale della popolazione guarita. Non dalle donne, di qualunque età, che abbiano avuto una precedente gravidanza (anche con esito abortivo precoce) nell’arco della propria vita, anche molti anni prima. Non da coloro che hanno un titolo anticorpale basso. Non da chi, per patologie di vario genere é inadatto al prelievo. Non da chi, infine, aveva avuto la malattia troppo tempo prima o da troppo poco tempo. Il siero é gratuito, del popolo e per il popolo, é vero, ma servivano dalle due alle tre sacche di somministrazione ai pazienti per vederne gli effetti, in una fase grave ma iniziale della malattia e somministrabili solo in regime di ricovero nei reparti ospedalieri.
In sintesi, posto che il siero fosse stato del tutto efficace (e le statistiche, non i singoli casi, non lo confermavano) era scarsamente adatto ad essere utilizzato su larga scala per le sue peculiarità di prelievo, uso, stoccaggio e distribuzione in una fase acuta della pandemia. E impossibile farne scorta nei periodi o nei luoghi in cui il numero di malati e dunque di guariti era limitatissimo.
Gli errori nell’esposizione mediatica
De Donno ne soffrì molto, probabilmente, per aver dovuto toccare con mano, non la scarsa validità del siero (lui rimase sempre convinto dell’assoluta efficacia) ma delle oggettive problematiche.
Ma De Donno era anche prigioniero del personaggio mediatico che aveva costruito in aderenza alle sue teorie e che, nella semplicità di un medico di campagna, come amava definirsi, esponeva la sua sensibilità personale alla valanga di agguerriti detrattori a mezzo stampa e social che lo asfaltavano senza pietà.
De Donno commise anche errori macroscopici in questo ambito: al culmine della popolarità per difendere le sue posizioni “creò” un suo profilo fake su facebook con l’identità fittizia di uno scienziato che interloquiva con lui e sosteneva scientificamente le sue teorie. Un’ingenuità per un non addetto alla comunicazione e al tempo stesso o un madornale errore di credibilità che gli costò carissimo.
De Donno si scontrò con gli squali della dialettica pubblica e popolare (una per tutte Selvaggia Lucarelli) giornalisti ma ancor più personaggi popolari che, gliene va dato atto, con le parole a mezzo stampa sono rigoristi incontrastati, e li lui dovette incassarne i duri colpi inferti dai mestieranti.
De Donno fu accusato pubblicamente da alcuni membri della sua stessa equipe ospedaliera di essere presuntuoso, aggressivo, irrispettoso, più che un leader un despota in corsia. E anche in quel caso, non imparando la lezione del vivere da personaggio pubblico, attaccò chi lo attaccava, accusandolo di scarso senso di disciplina.
La tragica parabola del “proiettile magico”
Poi, gradualmente i riflettori su di lui si attenuarono mentre il destino del suo” proiettile magico” invertiva la rotta e gli puntava contro. La cronaca termina ieri, con l’uomo De Donno, padre e marito, fortemente credente in Dio, che come medico, aveva dovuto rinunciare al sogno di salvare il mondo dalla pandemia con la plasmaferesi. E rinunciando a quel sogno aveva deciso un mese fa di rinunciare anche al posto da primario all’ospedale di Mantova e sotto dimensionarsi professionalmente a medico di medicina generale. Un uomo probabilmente ferito in profondità che, a soli 54 anni, ha tragicamente posto fine alla sua esistenza impiccandosi in casa.
Trapela da fonti non confermate che fosse estremamente stanco, non solo fisicamente. E certamente il ribaltamento della ribalta della plasmaferesi, aggiunto al tunnel feroce percorso nella lunga pandemia con giornate anche di 18 ore in reparto, per stappare i pazienti alla morte, devono averlo segnato. Nella sua ultima intervista pubblica lo scorso mese appariva provato, come chi ha vissuto l’insuccesso della sua terapia come un fallimento personale. Tracinandosi dentro i ricordi di tutte le persone che questo maledetto virus strappava alla vita e che lui raccontava si sentirseli incollati addosso. Ricorda molto la sindrome del burn out, l’esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale a seguito di uno stress come quello che i tanti medici ospedalieri dei reparti Covid sono stati costretti a vivere. E che potrebbe non aver risparmiato anche un talentuoso e ambizioso primario di provincia, genuinamente convinto del proprio intuito e delle capacità terapeutiche del siero degli immuni, e che improvvisamente si é ritrovato tra le mani quel suo “proiettile magico” che tanto magico non sembrava più essere. Poi, attraverso una tortuosa e tragica traiettoria, se lo é ritrovato puntato contro.