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Referendum Costituzionale: tutti i dubbi su sprechi e leggi più veloci

Referendum Costituzionale: tutti i dubbi su sprechi e leggi più veloci

01 Dicembre 2016 0 Di Rita Dietrich

Eliminare gli sprechi della politica e accelerare l’iter legislativo, la conclusiva battaglia fra i SI e i NO 

Dopo aver spiegato come funziona il voto al referendum di domenica prossima 4 dicembre, dopo aver ripercorso l’intrigato iter con il quale si è arrivati alla consultazione popolare, dimostrando tutti i rischi di una strumentalizzazione politica della riforma, dopo aver analizzato cosa comporta il superamento del bicameralismo perfetto e quale influenza ha anche sull’elezione del Presidente della Repubblica, entriamo più nel merito di come, se vincono i SI: vengano suddivisi i compiti fra lo Stato e le Regioni, rappresentate appunto dal nuovo Senato, si riducano i costi della politica e si ampli la partecipazione cittadina.  

Revisione del Titolo V della seconda parte della Costituzione

La riforma infatti, modifica il rapporto Stato/Regioni, cambiando il testo del Titolo V della seconda parte della Costituzione, che appunto costituisce una parte del quesito referendario.

Questo punto mira a risolvere una volta per tutte il sovrapporsi di competenze legislative fra le singole regioni e lo Stato, Da quando infatti, nel 2001, si è cercato di innescare la devolution conferendo più poteri alle regioni, più volte queste ultime hanno denunciato lo sconfinamento del Parlamento su decisioni che invece spettavano a loro, facendo appello alla Corte Costituzionale che si è dovuta destreggiare fra i cavilli burocratici prodotti da leggi spesso confuse e lacunose. Prima del 2001, cioè quando il potere dello Stato era nettamente superiore a quello delle regioni, le sentenze della Corte Costituzionale  che riguardavano questi aspetti si aggiravano intorno al 5%, attualmente si attestano al 45%, rallentando e complicando notevolmente l’iter legislativo. La necessità di modificare questo punto incontra pareri favorevoli sia fra i sostenitori del Si che quelli del No, la differenza sta soprattutto sul come risolvere il problema. Chi è a favore della riforma sottolinea come questa chiarisca i punti oscuri lasciati dalle precedenti leggi, conferendo alle Regioni le materie di rilevanza territoriale, come la programmazione e l’organizzazione dei servizi sanitari, che da soli valgono l’80% dei bilanci regionali, o la pianificazione del territorio e la mobilità interna. Tuttavia, lo Stato potrà esercitare la clausola di supremazia sulle materia di competenza regionale se lo richiedono gli interessi nazionali, o l’unità giuridica od economica del Paese. Chi invece è contro, sostiene che la concorrenza dei poteri si possa risolvere con leggi ordinarie, senza toccare la Costituzione. Inoltre non riconosce la chiarezza del testo e considera impossibile che un senatore, avendo già una carica amministrativa, possa detenere compiti sia in ambito nazionale che locale.  

Contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e soppressione del Cnel

Lo scontro fra il SI e il No è molto acceso anche sulla parte che riguarda la riduzione dei costi della politica. Anche qui l’opposizione non sta nel non considerare esosi i costi, ma sul modo con il quale si desiderano contenere.  Per il SI, il risparmio ottenuto dalla riduzione dei parlamentari, dalla mancanza di indennizzo per i senatori, dall’abolizione del Cnel e delle province, si aggira intorno ai 500 milioni di euro l’anno. Per i sostenitori del NO, la cifra si abbassa invece a soli 49 milioni di euro, dal momento che l’abolizione delle province è già in atto con la legge del ministro Delrio a prescindere dal referendum. Fra i sostenitori del No occorre anche specificare che ve ne sono molti che avrebbero preferito una riduzione anche del numero dei deputati, lasciando magari inalterato il bicameralismo.

Opinione avversa è anche quella sulla utilità o meno del Cnel, (consiglio Nazionale dell’Economia e del lavoro) organo con competenze legislative sui temi economici ma con la facoltà di esprimere solo pareri non vincolanti. Per il governo e per chi è a favore della riforma esso costituisce uno spreco di denaro pubblico che si aggira intorno ai 20 milioni di euro l’anno. Per molti sostenitori del NO esso è un’istituzione importante per il confronto tra la società produttiva e lo Stato. Inoltre, sempre per gli avversari, riduzioni di indennità e finanziamenti pubblici possono essere regolamentati da leggi ordinarie.     

Maggiore democrazia diretta

Una parte invece che incontra molti consensi da ambedue le parti riguarda l’ampliamento degli istituti di democrazia diretta. Oggi la Costituzione prevede solo i referendum costituzionali, come questo, e quelli abrogativi, per i quali è richiesto un quorum di 50 più 1 dei votanti. La riforma invece mantiene tale quorum per i referendum richiesti con 500.000 firme, ma lo riduce se invece le firme ottenute sono 800.000. Ciò garantirebbe una maggiore validità di tutti quei referendum che raggiungono un maggior interesse popolare.

Inoltre viene introdotto un altro referendum non attualmente previsto: quello Propositivo e di indirizzo, la cui disciplina però è rimandata a leggi successive. Ed infine viene disposto l’obbligo di esame al Parlamento di leggi di iniziativa popolare raccolte con 150 mila firme anziché 50.000. Anche se a prima vista sembrerebbe un ostacolo per la democrazia diretta, la mancanza di obbligo da parte del Parlamento a discutere queste proposte, ha ridotto la loro efficacia solo al 3% dei casi di discussione in aula.    

A questo punto, appare evidente come la differenza fra i SI e i NO non riguarderebbe tanto le problematiche sollevate, quanto il modo di affrontarle. Pertanto il vero ostacolo per i cittadini è soprattutto quello di aver enucleato argomenti così diversi in un quesito unico, impedendo così di dare un proprio giudizio punto per punto. Se il Ni fosse un voto accettato, probabilmente sarebbe quello più accreditato.   

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