Come difendersi dal relativismo scientifico e da un Dio che gioca a dadi con l’universo
15 Settembre 2021Einstein dubitava. Dubitava che la natura fosse descritta in termini probabilistici ed espresse il suo dubbio attraverso quella frase divenuta celebre. Dal suo canto, Bohr gli rispose con un altro dubbio “relativistico”: Piantala di dire a Dio come deve giocare!
Come difendersi dal relativismo scientifico e da un Dio che gioca a dadi con l’universo
di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati professioni e competenze Aidr
Dio non gioca a dadi con l’universo. Questa frase, scritta da Einstein all’amico Niels Bohr, sintetizza molto bene la natura probabilistica della meccanica quantistica, una teoria che mette in dubbio la natura deterministica su cui si basa la fisica classica. La contrapposizione tra le due teorie, nei primi anni del novecento, è stata molto forte. Da una parte, a sostenere il principio della causa e dell’effetto, c’erano nientepopodimeno che Galileo e Newton, dall’altra, a sostenere il principio dell’azione e della “probabilità” che si verifichi una certa conseguenza, c’erano dei giganti come Bohr, Schroedinger, Heisenberg e Dirac. Einstein dubitava. Dubitava che la natura fosse descritta in termini probabilistici ed espresse il suo dubbio attraverso quella frase divenuta celebre. Dal suo canto, Bohr gli rispose con un altro dubbio “relativistico”: Piantala di dire a Dio come deve giocare!
Il dubbio è una caratteristica essenziale del pensiero filosofico e scientifico. Hanno dubitato Aristotele, Socrate, Cartesio, Galileo, Newton e Einstein, solo per citarne alcuni… Il dubbio, però, deve avere origine da basi solide e non sempre questo accade. Il relativismo scientifico nasce proprio dalla mancanza di un pensiero critico e di una conoscenza approfondita di un certo argomento. Pochi avrebbero il coraggio di mettere in dubbio la teoria della relatività, molti, invece, hanno la presunzione di mettere in dubbio l’interpretazione dei dati statistici. La differenza tra i due comportamenti è abbastanza legittima e deriva in parte dalla profonda diversità tra le teorie basate sul metodo scientifico deduttivo e l’adozione di modelli induttivi empirici attraverso i quali vengono descritti dei fenomeni (naturali, sociali, medici) attraverso la raccolta dei dati e la loro interpretazione. Anzi, “le” loro interpretazioni. Da una parte ci sono le previsioni teoriche, che vengono verificate sperimentalmente e hanno due caratteristiche fondamentali: si basano sulla matematica, l’unica scienza esatta (o quasi) a disposizione dell’uomo, e sono riproducibili sperimentalmente. Dall’altra parte ci sono la raccolta dei dati, organizzata in maniera più o meno rigorosa, l’analisi e le conclusioni a cui si giunge applicando uno o più modelli. Il metodo deduttivo contro il metodo induttivo. Si potrebbe semplificare “informaticamente” la questione, facendo ricorso alla differenza tra la logica top-down e la logica bottom-up, ma è evidente che ci troviamo di fronte a un problema ben più complesso. La logica induttiva (bottom-up) alla base del processo di raccolta e di produzione dei dati statistici, sebbene si basi su metodi scientifici, ha delle fragilità intrinseche che nella logica deduttiva sono molto meno accentuate. I dati statistici hanno bisogno di una chiave di lettura, che spesso può essere diversa in base al modello adottato (e spesso può essere sbagliata), la teoria scientifica, al contrario, “è” una chiave di lettura che trova conferma nell’esperimento e nella raccolta dei dati. È per questo che la lettura di un dato statistico non è quasi mai univoca, ed è per questo che i dati e le statistiche possono essere usati per mentire autorevolmente con (falso) rigore scientifico. Difendersi dalle “statistiche taroccate” è molto difficile, l’unico strumento efficace è rappresentato dal dubbio cartesiano. Il dubbio insieme al razionalismo critico e alla capacità di guardare un certo fenomeno da diverse prospettive rappresentano degli ottimi strumenti per avvicinarsi alla verità. Queste due caratteristiche, in un momento storico di profonda disgregazione sociale e intellettuale, pieno di giornalisti saputelli e pseudoscienziati televisivi che vendono facili certezze alla popolazione (salvo poi smentirle a petto nudo sulle riviste di gossip, sul red carpet o nei salotti dei talk show), sono, a volte a torto, a volte a ragione, abbinate alla parola “complottismo” e a una tipologia di persone ignoranti e inutilmente sospettose. Associare i ragionevoli dubbi al complottismo è un’operazione distruttiva molto grave perché permette di far passare una palese menzogna non contraddetta in una rassicurante falsa verità. L’unica verità. Questa perdita totale di razionalità è frutto di una decadente cultura scientifica collettiva, ormai ridotta ai minimi termini, e di una diffusa “scienza delle opinioni” attraverso la quale, chiunque, anche grazie a quei social che “hanno dato voce agli imbecilli”, per dirlo con le parole di Umberto Eco, può affermare qualsiasi teoria farlocca senza un vero e proprio contraddittorio e senza il rischio di passare per una sana gogna pubblica mediatica. La società del politicamente corretto vieta categoricamente di dire apertamente a un idiota che è un idiota. Galileo Galilei, Dante Alighieri e Magritte erano politicamente scorretti. La scienza e l’arte sono politicamente scorrette. La vita è politicamente scorretta. Bisognerebbe iniziare a farsene una ragione…
La domanda, a questo punto, potrebbe essere: “Quando un dubbio e ragionevole?”.
La risposta si può trovare in un aneddoto scientifico di qualche anno fa.
Nel 1930, a Lipsia, di fronte alla Società tedesca di fisica, si svolse una conferenza a cui partecipò Albert Einstein. Al termine del suo intervento, “Albertone” si rivolse al pubblico per sollecitare qualche domanda. Dall’ultima fila si alzò un ragazzo magrolino, con due occhi vispi e un enorme ciuffo simile a quello di Cameron Diaz nel film Tutti pazzi per Mary. Il ragazzo non conosceva bene la lingua tedesca e con una certa aria di superiorità disse: “Quello che ha detto il Professor Einstein non è stupido, ma la seconda equazione che ha scritto non deriva dalla prima. Essa richiede, infatti, delle ulteriori assunzioni che non sono state fatte e, inoltre, quel che è peggio, non soddisfa un criterio di invarianza, come invece dovrebbe essere”.
Ovviamente, l’atmosfera diventò subito gelida e surreale. C’era chi sghignazzava, chi, indignato e incredulo, esprimeva il proprio dissenso con cenni del capo e chi si chiedeva perché era stata data la parola a uno studentello che puzzava ancora di latte e che aveva osato mettere in dubbio le parole di Einstein. Per la maggioranza, quel dubbio era illegittimo e non aveva senso. Einstein non faceva parte della maggioranza. Cominciò ad accarezzare i suoi baffetti da sparviero e ad osservare attentamente la lavagna. Dopo qualche minuto, si rivolse alla platea e disse: “L’osservazione è perfettamente corretta. Vi prego pertanto di dimenticare tutto quello che vi ho detto quest’oggi”.
C’è da dire che il ragazzo disobbediente, in quel caso, non era esattamente lo stereotipo dell’ignorante che “le scie chimiche…, il 5G…, il microchip…complotto!”, era Lev Davidovich Landau, quello che, qualche anno più tardi, divenne il principale fisico teorico dell’Unione Sovietica. In quel caso, il dubbio era più che legittimo e il destinatario della critica era egli stesso un critico feroce nei propri confronti, disponibile a prendere in considerazione osservazioni che avrebbero potuto sia sostenere che confutare le sue teorie. Si potrebbe dire che un dubbio diventa legittimo quando dimostra l’errore e falsifica una teoria. L’atteggiamento di Einstein nei confronti della scienza era basato su questa idea di dubbio e fu alla base delle riflessioni che fece in seguito Karl Popper, il filosofo del razionalismo critico, in merito alla critica e alla falsificazione scientifica, ovvero all’atteggiamento antidogmatico che non va alla ricerca di conferme ma di confutazioni. Popper criticò ferocemente il metodo induttivo, obiettando che le leggi scientifiche non vengono ricavate dall’osservazione ripetuta di puri fatti, ma sono sempre precedute da un’intuizione sulla natura delle cose o da un’ipotesi di lavoro palese o inconscia.In altre parole, Popper era un ultrà del metodo deduttivo galileiano (sempre sia laudato), Einstein era un po’ più equilibrato, ma pur sempre tifoso. Insomma, Popper era un po’ come Tirzan in Eccezziunale veramente e Einstein come Oronzo Canà nell’Allenatore nel pallone. Lo stesso Einstein scrisse queste parole a proposito del metodo induttivo : L’immagine più semplice che ci si può formare dell’origine di una scienza empirica è quella che si basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e raggruppati in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme che li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è possibile conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a configurare – in considerazione dell’insieme disponibile dei singoli fatti – un sistema più o meno unitario, tale che la mente che guarda le cose a partire dalle generalizzazioni raggiunte per ultimo potrebbe, a ritroso, per via puramente logica, pervenire di nuovo a singoli fatti particolari. Un pur rapido sguardo allo sviluppo effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della conoscenza scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo. Infatti, se il ricercatore si avvicinasse alle cose senza una qualche idea (Meinung) preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare, dal mezzo di una enorme quantità della più complicata esperienza, fatti i quali sono semplicemente sufficienti a rendere palesi relazioni legiformi? Galilei non avrebbe mai potuto trovare la legge della caduta libera dei gravi senza l’idea preconcetta stando alla quale, sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo, sono complicati dall’azione della resistenza dell’aria, nondimeno noi consideriamo cadute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo sostanzialmente nullo.
I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono avuti seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella dell’induzione. Una concezione intuitiva dell’essenziale di un grosso complesso di cose porta il ricercatore alla proposta di un principio ipotetico o di più principi di tal genere. Dal principio (sistema di assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le conseguenze in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili dal principio, spesso attraverso sviluppi e calcoli noiosi,, vengono poi messe a confronto con le esperienze e forniscono così un criterio per la giustificazione del principio ammesso. Il principio (assiomi) e le conseguenze formano insieme quella che si dice una “teoria”. Ogni persona colta sa che i più grandi progressi della conoscenza della natura – per esempio, la teoria della gravitazione di Newton, la termodinamica, la teoria cinetica dei gas, l’elettrodinamica moderna, ecc. – hanno tutti avuto origine per questa via, e che il loro fondamento è di natura ipotetica.
A questo punto, è utile fermarsi con le noiose considerazioni di carattere scientifico e soffermarsi su quanto è accaduto negli ultimi due anni in merito alla gestione della pandemia. Con un’avvertenza: il mio punto di vista è senz’altro influenzato dal pensiero scientifico einsteiniano. In primo luogo, non c’è stato un dibattito scientifico qualitativamente accettabile. Anzi, non c’è stato nessun dibattito. I dubbi, anche i più legittimi, sono stati etichettati con due immagini dispregiative e stupidamente discriminatorie: da una parte ci sono gli intelligenti e dall’altra ci sono i cavernicoli “complottisti”. I dati, anche quelli più evidenti, sono stati travisati e usati ad arte per creare false narrazioni, spaccature e conflitti sociali. La scienza è diventata un circo che non procede né per induzione né tantomeno per deduzione: procede per contraddizioni, per fedi e per opinioni da bar portate avanti dalle tifoserie. La scienza è diventata una nuova religione salvifica che vende l’immortalità e un nuovo dio in cui credere. Un dio che ha le sembianze dell’opinionista da copertina e che riesce a convincere i suoi discepoli senza grosse difficoltà, spesso mentendo palesemente (come del resto fanno tutte le religioni). Giocando a dadi, per l’appunto, ma non nel senso einsteiniano. Giocando a giocare sui numeri e sulle diverse rappresentazioni della realtà. Giocando con le paure, con le parole, con il pensiero unico e con decine di narrazioni contraddittorie che non c’entrano nulla con la ragione e non c’entrano nulla nemmeno con la religione. Peccato che, per qualcuno, non sia affatto vero che la scienza, come la religione, non si possano discutere. La scienza si discute eccome, perché soltanto attraverso il confronto socratico è possibile arrivare a qualcosa che somigli alla verità. Si può arrivare perfino a sostenere che “Dio è morto” e a discuterne civilmente. La storia sarebbe stata diversa, se Einstein, quel giorno, avesse detto: “Signor Landau, lei è un “complottista” e la mia equazione non si discute”. Si potrebbe obiettare che le mie riflessioni riguardino un ambito scientifico elitario e che fanno una subdola distinzione tra scienze maggiori e scienze minori. Sono fermamente convinto che non esistano scienze maggiori e scienze minori, esistono scienziati maggiori e scienziati minori, ed esiste il “paradosso del relativismo scientifico”, quello in cui gli scienziati maggiori sono aperti ai dubbi e al dialogo e gli scienziati minori sono vanitosi, irascibili, intolleranti alle critiche e ai confronti, con un ego spropositato e inclini all’autocelebrazione. La scienza è una cosa seria che merita di essere discussa e contraddetta, non merita certamente di essere umiliata.